· Città del Vaticano ·

Il libro “Libera nos Domine” di Giulio Albanese

La tragedia
dell’allegro ignorante

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28 dicembre 2020

«Ogni volta che iniziamo a pensare di essere il centro dell'universo, l'universo si gira e dice con aria leggermente distratta: “mi dispiace, può ripetermi di nuovo il suo nome?”». Lo humor tipicamente anglosassone della scrittrice statunitense Margaret Maron è la felice chiusura del libro di Giulio Albanese “Libera nos Domine. Sulla globalizzazione dell'indifferenza e sull'ignoranza dell'idiota giulivo” (Messaggero di Sant'Antonio Editrice, Padova, 2020, pagine 122, euro 12). Ma potrebbe indifferentemente campeggiare anche come incipit di questo breve saggio, una sorta di memento mori dedicato appunto all'infausto connubio di ignoranza e superbia, primo responsabile della decadenza della nostra epoca.

Il fatto è che mai come in questi mesi la figura del “competente”, dell'”esperto”, ha goduto di un'apertura di credito così fideistica e generato al contempo un altrettanto estesa e rabbiosa disillusione. E poco importa che riguardo alla definizione della categoria si registrino alcune differenze. Per esempio, Raffaele Alberto Ventura (Radical Choc. Ascesa e caduta dei competenti, Einaudi, 2020) tratteggia il “competente” come frutto di una società tecnocratica che per poter sopravvivere deve aumentare i rischi e quindi le conoscenze necessarie ad evitarli, generando di fatto una sottoclasse borghese essenzialmente parassitaria. Albanese preferisce in questo caso sottolineare invece l'aspetto della falsa competenza e della disinformazione, di cui appunto “l'idiota giulivo” è la perfetta sintesi.

Anche l'indifferenza, alla fine dei conti, è ignoranza. Non è una questione di fede, specifica Albanese, religioso comboniano. Del resto, affermava il cardinale Carlo Maria Martini, «non ci sono credenti e non credenti ma solo pensanti e non pensanti» (il porporato concedeva poi che, nella categoria dei pensanti, si potesse distinguere fra credenti e non). Piuttosto, è la tesi dell'autore, in una fase di decadenza nella quale, come la storia insegna, una classe dominante sta esaurendo la propria funzione all'interno del suo gruppo economico-sociale, si provoca «una transizione dilaniante fra ciò che tende a morire e ciò che sta appena nascendo». E a fare la differenza è il sapere: «Ciò che rende culturalmente più poveri – scrive Albanese – è la mancanza di un orizzonte comune rispetto a cui porre l'ethos non soltanto come modus operandi (prassi e costume) ma anche come radicamento e dimora, come ultimo fondamento del vivere, dell'agire e del morire umani». Dovrebbe essere questo il parametro sul quale giudicare le azioni altrui, soprattutto quelle di chi si arroga il diritto di compierle in nome degli altri, come fa appunto il “competente”. Serve saper separare; distinguere, alla fine, il bene (comune) dal male, l'esperto da chi non lo è. Le insidie sono dietro l'angolo: il vero incompetente, scrive Albanese citando il chimico fiorentino Ugo Bardi, «non si rende conto di esserlo»; per questo motivo «è impreparato in tutto quello che fa» e dunque «fa dei danni enormi».

Al netto dei molti politici immediatamente evocati da queste parole, viene alla mente subito l'esempio dei tanti manager superpagati che hanno condotto grandi aziende al fallimento, degli economisti titolati che sono stati posti al vertice di organizzazioni finanziarie rivelatesi drammaticamente inadeguate. Perché, spiega Albanese nel suo saggio, l'economia, nella cornice della globalizzazione dei mercati «non può continuare a essere un cane sciolto» e «la conoscenza responsabile deve diventare il fondamento per trasformare la politica, la cultura, l'educazione, l'informazione e la società tutta». “Società tutta” nel senso di società globale. Perché oltre alla “globalizzazione dell'indifferenza” si rischia la “globalizzazione dell'ignoranza”, il dominio del pensiero forte rispetto alla maggioranza silenziosa dei “giusti”.

Albanese è un giornalista esperto di missioni, come sa chi ha avuto modo di leggerlo sulle colonne anche dell'Osservatore Romano. Per questo rivolge la sua analisi, lucida, anche e soprattutto al tema dell'immigrazione e alla falsa narrativa che se ne fa nel mondo occidentale. Un racconto propagandistico così potente da penetrare anche nella cultura degli stessi paesi d'emigrazione. Nelle terre al di là di quello specchio d'acqua che l'autore ribattezza sarcasticamente Mare Monstrum, essendo ormai diventato la tomba di migliaia di esseri umani. «Quando i poveri si convincono che i propri problemi dipendono da chi sta peggio di loro, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti», scrive l'attivista camerunese Yvan Sagnet. E le classi dominanti, da sempre, annoverano come loro maggiori alleati, la categoria degli “idioti giulivi”. Anche quelli, va da sé, che scrivono sui giornali o appaiono in televisione. «La mercificazione a cui è sottoposto l'intero comparto massmediale — osserva Albanese — il clientelismo imposto da alcuni potenti del sistema informativo, nonché l'emissione affannosa di notizie resa necessaria dalle regole della comunicazione in tempo reale, rappresentano un forte limite nel raccontare i fatti e gli accadimenti su base planetaria, in particolare quelli che si verificano, per usare l'espressione di Papa Francesco, nelle tante periferie del mondo». L'effetto è che «l'opinione pubblica sa poco e niente di quello che succede nel nostro pianeta, col risultato che l'ignoranza, intesa come non conoscenza di quanto succede, rappresenta un fattore altamente destabilizzante». Una constatazione che suona come un appello. Scriveva il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński: «La nostra professione è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo, che ci costringono invece ad essere dipendenti da interessi, punti di vista, aspettative dei nostri editori...In generale si tratta di una professione che richiede una lotta continua e un costante stato di allerta». Sempre, beninteso, che si abbia interesse a rimanere “svegli”.

di Marco Bellizi