Natale all’insegna
Né la pandemia, né l’estremismo religioso fermeranno la celebrazione del Natale in Indonesia. Nel Paese musulmano più popoloso al mondo (230 milioni di credenti islamici, su una popolazione di 260 milioni di abitanti) la tradizione del Natale è forte e radicata. Anche perché la comunità dei 24 milioni di battezzati (tra i quali 7 milioni di cattolici) del vasto arcipelago — il seme del Vangelo è stato piantato dai missionari portoghesi prima e olandesi poi — vivono il Natale come una delle feste caratterizzanti la loro identità e missione. Nei secoli la festa del Natale ha assunto anche un peculiare volto interreligioso, ed è divenuta momento prezioso in cui i credenti musulmani amano condividere, visitare, porgere gli auguri e perfino partecipare ai riti liturgici in compagnia dei cristiani. «Continueremo ad augurarci “Selamat Natal”, il nostro “felice Natale” tra cristiani e musulmani: questo augurio e questa pratica non fanno che favorire e rafforzare il clima di pacifica convivenza e di fraternità che è insito nella celebrazione della nascita di Cristo», riferisce in un colloquio con «L’Osservatore Romano» padre Ignazio Ismartono, anziano gesuita che ha lavorato per anni nella Commissione Giustizia e pace dell’episcopato indonesiano e oggi è direttore di Sahabat Insan (Amicizia e umanità), organizzazione, con sede a Giacarta, impegnata nella lotta alla tratta di esseri umani. Il 75enne gesuita ricorda che in Indonesia i cristiani hanno sviluppato ricche, vivaci e diverse tradizioni per il tempo di Natale, che rispecchiano il pluralismo etnico e culturale dell’arcipelago.
La tipica cultura giavanese — spiega il religioso — emerge in tutta la sua freschezza nella zona di Yogyakarta, dove «la celebrazione del Natale è animata da rappresentazioni di strada sulla nascita di Gesù Cristo e la messa in chiesa è guidata dal sacerdote che indossa il beskap, il costume tradizionale giavanese e il blankon, tipico copricapo locale». Inoltre a Giava la festa del Natale ha un tratto in comune con la celebrazione dell’Eid-al fitr, la festa musulmana di fine Ramadan: «È, infatti, l’occasione per visitare amici e familiari, anche se professano un credo differente. Oggi con la pandemia queste visite saranno limitate, ma lo spirito di solidarietà, di amicizia, di festa e condivisione è vivo e presente», rimarca il gesuita.
Nell’isola di Sulawesi, nella parte orientale dell’Indonesia, in molti partecipano al Kunci Taon (letteralmente: fine dell’anno), manifestazione che include attività pubbliche organizzate a livello ecumenico in occasione del Natale, con parate in costumi etnici che uniscono cristiani e non cristiani, animate soprattutto dagli indigeni minahasa, gruppo etnico maggioritario nella provincia del Nord Sulawesi (dove oltre il 67 per cento dei 2,5 milioni di abitanti sono di religione cristiana). «Il Natale — spiega Ismartono — è sempre stato vissuto all’insegna dell’unità e della fraternità: è importante preservare questo spirito trasmettendolo con saggezza alle generazioni future». Non per nulla, nota, il motto dei Minahasa è «Siamo tutti fratelli e sorelle», in perfetta sintonia con la recente enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti.
Nelle vicine isole Molucche, il Natale è caratterizzato da una cerimonia chiamata Negeri, che significa pulizia. «Il rito simboleggia la purificazione e la liberazione dei peccati», osserva Ismartono, ricordando che «in isole dove vivono perlopiù pescatori, la notte di Natale allo squillo delle campane fanno eco le sirene e le campane delle barche e delle navi, in segno di festa e solidarietà».
La provincia più remota dell’Indonesia è quella di Irian Jaya, la cosiddetta Papua indonesiana, costituita dalla parte occidentale della vasta isola della Nuova Guinea. Abitata da popolazioni indigene dai tratti somatici scuri (i cosiddetti “neri d’Oceania”) è zona dove la presenza cristiana è significativa. Qui la celebrazione della nascita di Cristo, in un processo di inculturazione, si è integrata con le tradizioni locali. E così, dopo la messa della notte di Natale, spesso celebrata all’aperto, le famiglie dei diversi villaggi amano organizzare il barapen (pietra per grigliare), rituale di cottura del maiale per continuare a celebrare in una festa che unisce persone di ogni credo. «La tradizione del barapen vuole esprimere gratitudine a Dio per non aver abbandonato il suo popolo ed essersi fatto uomo. La condivisione che caratterizza il consumare insieme la carne di maiale rimanda al mistero dell’Incarnazione, del Dio-con-noi, assunto e rivissuto nella cultura tribale. Anche questo è il peculiare Natale in terra d’Indonesia», rimarca Ismartono.
È vero che il Natale, com’è avvenuto in passato, rischia di essere funestato da attentati terroristici promossi da gruppi jihadisti che intendono disturbare e avvelenare la convivenza pacifica nella società indonesiana. In tempo di pandemia, le chiese resteranno aperte, pur se con capienza limitata di fedeli, nel rispetto delle norme anti covid-19: per questo il governo ha predisposto un’adeguata sorveglianza grazie alle forze di sicurezza (esercito, polizia, corpi di guardia locali). «Ma questo servizio — ci tiene a sottolineare Ismartono — non sarà lasciato solo alle forze dell’ordine: coinvolge anche giovani volontari musulmani, nel segno del dialogo interreligioso. Tra loro vi sono ben 500.000 membri del movimento giovanile Anshor e Banser, la più grande organizzazione sociale giovanile in Indonesia, affiliata al movimento musulmano Nahdlatul Ulama». Si tratta di un segno tangibile di vicinanza, molto apprezzato: «La serena celebrazione di questo evento religioso cristiano, grazie al contributo di tutti, anche degli amici musulmani, serve a consolidare l’unità mentre il Paese è messo alla prova dalla pandemia e da episodi di estremismo religioso, come quello verificatosi nelle scorse settimane a Sulawesi», ricorda il gesuita. Il Natale in Indonesia è, allora, «un momento in cui, nel nome del Vangelo, insieme si costruisce il bene comune, l’armonia religiosa e la solidarietà sociale».
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