Gesù, il Verbo incarnato di Dio, nasce in una grotta. Fra qualche giorno celebrando il Natale 2020, lo ricorderanno nel mondo oltre due miliardi di cristiani. Il numero fa impressione ma non si deve cadere nella trappola di una visione “muscolare” della fede, il cristianesimo non ha mai avuto buoni rapporti con i grandi numeri. A Betlemme Gesù nasce “fuori casa” perché l’imperatore Augusto, all’epoca l’uomo più potente del mondo, aveva indetto un censimento, voleva cioè contare tutti i suoi sudditi. È sempre la logica di Babele: gli uomini come mattoni, sudditi che “contano” solo se possono essere contati, calcolati, misurati (ed eventualmente scartati). È la logica esattamente opposta a quella del Dio della Bibbia che si china su ciascuno dei suoi figli, che lascia il grande numero, 99, per andare a cercare quell’unica (e insostituibile) pecorella che ha smarrito la strada. Quella pecora è piccola, non si vede, si trova come in un cono d’ombra, ma è proprio lei che spinge il Signore della Storia a muoversi, a operare meraviglie, a compiere il miracolo della salvezza.
Questo stile piccolo e nascosto di Dio splende anche nella scena di Betlemme, un’immagine piena di ombra, come si addice a una grotta. È lì che Dio ha scelto di nascere, di diventare uomo, anzi bambino, per ripercorrere tutte le esperienze che rendono l’esistenza veramente umana: vero Dio e vero uomo. E se l’uomo ha vissuto su questo mondo abitando per migliaia di anni nelle caverne, allora è giusto ripartire proprio da lì, dall’ombra fredda e inospitale di una grotta. Tutto di quella vicenda rivela lo stile discreto di Dio che non mostra i muscoli al centro della scena ma si presenta piccolo e fragile ai margini della storia, nelle periferie del mondo. La Palestina, piccola provincia ai confini dell’impero, Maria la giovane vergine di Nazaret («cosa di buono può venire da lì?» Esclama l’apostolo Natanaele) e ora Betlemme, «il più piccolo capoluogo di Giuda» (Mt 2, 6) e poi i pastori, i primi a incontrare Gesù e infine la piccola famiglia, Maria e, soprattutto Giuseppe, il più in ombra di tutti. Un uomo che per lo più fa due cose: tacere e sognare (e prestare fede ai suoi sogni).
Centocinquanta anni fa il Papa Pio IX
Questo tema della “santità della porta accanto”, o “della classe media della santità”, espressione che il Papa prende in prestito dal romanziere francese Joseph Malègue (e dal suo capolavoro Augustin) è molto caro a Francesco che spesso ne fa accenno, ma appunto in modo discreto, tra le righe dei suoi discorsi e dei suoi gesti. Al ritorno del viaggio del febbraio 2019 ad Abu Dhabi parlando con i giornalisti fece notare che non si era trattato di un viaggio “storico”, un momento “grande” della storia, perché ogni vita umana è grande, anche quella dell’ultimo della terra, e possiede una dignità immensa e immortale. Il fatto è che Papa Bergoglio è convinto che la storia degli uomini è sospinta ed elevata non dai “grandi” della storia, ma dalla «gente meccanica e di piccolo affare» come direbbe Manzoni o come intuisce Edith Stein nel cuore del momento più buio del
Il più bel film di questo duro 2020 che volge al termine è senz’altro La vita nascosta di Terrence Malick dedicato alla figura di Franz Jagerstatter, contadino austriaco, beatificato nel 2007, un “san Giuseppe” del Novecento che pagò con la vita la sua personale, silenziosa, resistenza al nazismo. Il titolo del film è preso da una frase della scrittrice inglese George Eliot che esprime in modo efficace questo pensiero che il vero bene è quello che spesso non si vede, non fa clamore, ma esiste e resiste: «Il bene a venire del mondo — scrive la Eliot — dipende in parte da azioni di portata non storica; e se le cose per voi e per me non vanno così male come sarebbe stato possibile lo dobbiamo in parte a tutti quelli che vissero con fede una vita nascosta e riposano in tombe che nessuno visita».
È la logica degli Hobbit del capolavoro di Tolkien, Il signore degli anelli, per cui il piccolo Merry, un personaggio apparentemente “minore” del romanzo, ad un certo punto afferma: «Il terreno nella Contea è profondo. Tuttavia ci sono cose ancora più profonde e più alte; e se non fosse per loro, un giardiniere non potrebbe curare il suo giardino in quella che lui chiama pace», intuendo che la pace nel mondo è assicurata non dalle grande potenze ma dall’operare nascosto di tante piccole mani, le stesse mani che un altro personaggio del libro, Elrond, celebra con queste parole: «Spesso questo è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo: sono piccole mani a metterli in movimento, perché vi sono costrette, mentre gli occhi dei grandi stanno guardando da un’altra parte». Erode il Grande cercava nel posto sbagliato perché il suo cuore era distorto e accecato dalla logica della forza e del potere, mentre lo sguardo dei pastori e dei magi si lascia guidare dalle stelle e trova la “grandissima gioia” (Mt 2, 11) in una piccola grotta alle porte di Betlemme.
Esiste una rete misteriosa del bene che sorregge il mondo e anche se ogni tanto può accadere che attorno ad alcuni personaggi o eventi, questa rete affiori e si mostri, per un attimo, visibile, in realtà per lo più essa si dipana e opera nell’oscurità, al contrario del male che è sempre fragoroso e ha bisogno del clamore ma poi finisce per non resistere e si consuma nel momento stesso in cui si mostra. Questo è un discorso che sottolinea in modo evidente la grande responsabilità che grava sulle spalle di chi è chiamato al delicato compito dell’informazione soprattutto nel mondo contemporaneo sempre alla ricerca di “eventi” che in quanto tali, fagocitano se stessi. Quale rete tra le due, quella del bene o quella del male, è giusto raccontare, illustrare, illuminare? Quale telegiornale avrebbe inviato una troupe per raccontare la nascita di Gesù nella grotta di Betlemme? La “grandiosa” rete del male infatti sembra più facile da raccontare, si impone da sé, mentre il bene deve essere intuito, ricercato, scoperto. Il problema è che la speranza è senz’altro più faticosa della disperazione. La strada della speranza è più impegnativa, richiede creatività, ma è anche la strada per permette una lettura e un racconto della realtà più corretta, come ha ricordato il Papa nel discorso alla Curia del 21 dicembre: «Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica», questo può scontrarsi con la mentalità di tanta informazione secondo la quale «i problemi vanno a finire subito sui giornali, questo è di tutti i giorni, invece i segni di speranza fanno notizia solo dopo molto tempo, e non sempre». Il bene va quindi intuito come un barlume che resiste anche nel buio; ci vuole speranza e la consapevolezza che anche la crisi si sviluppa all’interno dell’azione dello Spirito Santo, allora, dice il Papa «anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio».
Nascosta nel buio della grotta di Betlemme, splende la grazia del Natale, ai cristiani il compito di abbeverarsi a quella luce e trasmetterla, raccontarla, possibilmente senza guastarne la freschezza, svilirne la forza, disperderne il profumo. Edith Stein parlava di profeti e di santi. Forse a questi si possono aggiungere i poeti: di queste persone, umili strumenti di “qualcosa” più grande, abbiamo bisogno per cogliere il bene che opera nel mondo e raccontarlo, rimettendolo in circolo. È quello che ha fatto san Giuseppe, l’oscuro falegname, poeta e sognatore, di Nazaret.
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