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La divisione fra greci e latini

Questione di forme

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21 dicembre 2020

È trascorso quasi un secolo dallo scisma d’Oriente quando, nel 1149, Papa Eugenio III commissiona al vescovo di Havelberg, Anselmo, un’opera che contenesse le dispute teologiche sostenute anni prima dallo stesso prelato a Costantinopoli con l’arcivescovo greco Niceta. Nacquero così gli Antikeimenon o Dialogi, dove Anselmo si sofferma sull’unicità della fede cristiana e sulla pluralità di forme liturgiche e istituzionali che essa produce nel tempo e nello spazio. Fornendo, tra le altre cose, un contributo al dialogo fra Roma e Costantinopoli. All’argomento lo studioso Riccardo Saccenti ha dedicato il libro La varietà della Santa Chiesa. Unità di fede e pluralità di forme di vita cristiana in Anselmo di Havelberg (Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, 2020, pagine 168, euro 32), del quale pubblichiamo uno stralcio della conclusione.

Quello a cui Anselmo mira, delineando le forme e la sostanza di questo argumentum teologico, è la costruzione di una prospettiva capace di collocare le fratture che separano Roma da Costantinopoli dentro un orizzonte religioso che, sul piano della fede credente, resta unitario. Il vescovo di Havelberg concepisce la fede come qualcosa che si esprime nel tempo, dando vita a una molteplicità di forme che aiutano, a ogni passaggio storico, a chiarire meglio la conoscenza dei contenuti della fede stessa che restano stabili: essi sono un tutto che è uno e unico. Questo riconduce la divisione fra greci e latini a una questione di forme di vita che hanno una loro specifica importanza ma restano distinte, anche se conseguenti, dalla fede creduta. In questo, Anselmo recupera certamente un elemento caro a un certo nominalismo altomedievale che, proprio sulla questione della gestione “teologica” della frattura fra Roma e Costantinopoli, era già riemerso nella seconda metà dell’XI secolo in autori come Anselmo di Canterbury, ad esempio, in occasione del sinodo di Bari del 1098.

Il tentativo del vescovo di Havelberg non è certo quello di operare un riduzionismo superficiale delle distanze teologiche prodottesi, ma piuttosto quello di definire un principio teologico che funziona in modo dinamico e permette di capire le ragioni del prodursi di differenze quanto alla forma vivendi all’interno di una storia della forma credendi che è unica perché una è la fede e dunque una la Chiesa che crede quella fede. Restituire al xii secolo il testo degli Antikeimenon permette di cogliere i riflessi di una stagione culturale e religiosa plurale e articolata, nella quale sia il dibattito teologico sia il confronto fra latini e greci hanno contorni ancora fluidi e destinati a definirsi e forse irrigidirsi solo nei primi anni del xiii secolo, dopo il passaggio traumatico del 1204 e di una quarta crociata che segna una cesura dopo la quale il rapporto fra le due parti assume sempre la forma, almeno da parte della Sede Apostolica, di una reductio dei greci. È questo il criterio con cui i lettori del testo di Anselmo, nel xv secolo, torneranno sul contenuto dei tre libri degli Antikeimenon. In tal senso, la distanza che separa la composizione dell’opera dalla sua ricezione tre secoli dopo è rivelatrice di uno iato culturale prima ancora che cronologico.

È il dato religioso, inteso in senso lato, a mutare nel tempo le sue forme e con esso anche la sensibilità con cui si leggono le differenze e le distanze di ordine teologico all’interno del cristianesimo. I contenuti della riflessione anselmiana hanno certamente un valore di ordine politico, così come aveva già sottolineato Alois Dempf nel suo Sacrum Imperium. Anselmo è uomo legato alla corte tedesca e certamente la sua parabola lo porta ad avere un rapporto assai stretto con la Chiesa imperiale, elemento che per lo storico tedesco emerge proprio in una teologia della storia che avrebbe fatto da modello a quella di Gioacchino da Fiore. Una conclusione, quest’ultima, che viene messa in discussione da Henri de Lubac, per il quale invece il vescovo di Havelberg è espressione di una posizione “conservatrice”, che non ha una continuità nell’idea gioachimita di una progressione verso l’ultima età dello Spirito. Le osservazioni di Lubac, pur considerando gli scritti di Anselmo dentro una storia dell’eredità teologica gioachimita e le sue molteplici riprese anche in forma secolarizzata, sottolineano un elemento essenziale: la necessità di tenere in debito conto il punto di vista “religioso” e “teologico” dell’autore. E proprio questo punto di vista ha una qualità storica che fa riferimento ai dibattiti che ruotano attorno alle differenze fra greci e latini sulla processione dello Spirito Santo, sugli azzimi e sul primato petrino.

L’idea del vescovo di Havelberg, che la Chiesa sia caratterizzata da un’unità e unicità di fede che coesiste e anzi determina una pluralità di forme, matura anche sulla base di un confronto con prospettive teologiche proprie di autori come Demetrio, patriarca di Venezia, e soprattutto di Anselmo di Canterbury che, proprio nel delicato confronto coi greci, avevano più volte sottolineato la legittimità della convivenza di due tradizioni diverse. Il valore storico degli Antikeimenon e del principio sul quale, nel testo, viene edificata una lettura sapienziale della Chiesa come soggetto che esprime nel tempo la propria natura “una” e “unica”, sta nell’essere espressione di una stagione della storia dell’Europa latina nella quale, a partire dal problema dei rapporti con Costantinopoli e con la Chiesa greca, matura un approccio teologico capace di rendere ragione delle divisioni dottrinali, riconoscendo la legittimità delle diverse istanze di forma vivendi che il cristianesimo esprime, nella misura in cui ciascuna rappresenta un riaffermare la fede ed è quindi il frutto di una piena reformatio.

di Riccardo Saccenti