· Città del Vaticano ·

L’eredità di Beethoven a 250 anni dalla nascita

Troppo forte (poi piano)

Malcolm McDowell interpreta Alex in «Arancia meccanica» (Kubrick, 1971)
16 dicembre 2020

I dolori del giovane Ludwig


Beethoven è forte, troppo forte. Però pure parecchio piano. Contrasti continui, che rendono l’ascolto immediato. Anche a noi che siamo abituati a sentire alla radio musica concepita tutta sulla stessa dinamica. «Il Gran Ludovico Van», come lo chiama Alex in Arancia meccanica ti dà un colpo ogni battuta, quasi, e poi ti toglie la terra da sotto i piedi, ti fa scivolare nel piano, nei ricordi, ti avvolge con melodie sinuose, e poi «sbam», come in un fumetto, colpo netto sull’anima.

In realtà è così solo il cosiddetto “secondo periodo”, anche se questa periodizzazione, operata alla metà dell’Ottocento da Wilhelm von Lenz, fa rabbrividire gli esperti. Chi studia le cose con continuità argomenta che questo genere di approccio è troppo rigido e non rispondente alle reali trasformazioni avvenute nel linguaggio del compositore. Vero, però per semplificare, dopo l’iniziale influenza viennese, più o meno Mozart e Haydn, e prima della moderazione senile, che chi ha combattuto abbastanza chiama saggezza, c’è il periodo dei colpi secchi, del forte improvviso, dello staccato frenetico che sfocia in un cantabile apparentemente leggero, ma a sentir bene tragico.

Secondo Massimo Mila, è proprio in questa fase, volendo essere schematici dal 1800 al 1815, che «il dolore della vita, risentito da un animo che si fa eco dell’intera umanità, e l’energia indomabile nella disperata risoluzione per affrontarla» appaiono separati e giustapposti. Stiamo parlando del periodo che inizia con la Terza Sinfonia, e termina con il Concerto per pianoforte e orchestra numero 5 «Imperatore». Tra una cosa e l’altra Beethoven ha scritto tutte le altre sinfonie, tranne l’ultima, altri quattro concerti per pianoforte e orchestra, la sua unica opera teatrale, il Fidelio, e una serie di capolavori dalle forti tinte. Non a caso Lev Tolstoj, che di sentimenti contrastanti ne sapeva qualcosa, nel 1889 usa la Sonata a Kreutzer, scritta un’ottantina d’anni prima, per raccontare gli stravolgimenti amorosi di un uomo accecato dalla gelosia che lo porterà a uccidere la moglie. Con Chopin non avrebbe funzionato. Ma come tutte le belle storie anche questa ha una fine. L’emblema è lo scatto d’ira che si rifletterà per sempre sulla Terza Sinfonia. Scritto pensando a Napoleone, il lavoro prova a tenere insieme musica e realtà attraverso una speranza forte, ma mal riposta. Beethoven, come Hegel, aveva creduto alla carica rivoluzionaria del generale corso che «cavalcava lo spirito del mondo». Gli aveva dedicato l’opera, ma quando vide l’uomo chiamato a riportare la giustizia incoronarsi imperatore strappò il frontespizio. Da quel giorno la Terza si chiama, in italiano, «Sinfonia Eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo». Attendere prego.

Poi la sordità e la vecchiaia, che assieme alle grandi delusioni portano ai ripensamenti. Arriva il messaggio testamentario, quello della fratellanza tra tutti gli uomini, quello di un un amore superiore, della Gioia, di una «scintilla del divino, figlia dell’Elisio» che riunisce tutti sotto l’egida dell’uguaglianza.

Con gli anni si diventa sentimentali, si piange più facilmente, si cerca il senso delle cose o, per dirla come Mila «la straordinaria tensione dei contrasti, la ripartizione dei volumi sonori in nette zone di ombra e di luce, si viene mitigando». Non è solo una scelta estetica, è che «il mondo interiore del musicista ascende a una religiosa totalità e lo stile si fa in corrispondenza più unito e piano, evolve verso una trascendente smaterializzazione». Insomma i netti e contrastanti principi morali di Kant saranno pure belli, ma a una certa età ci vuole sintesi.

E la sintesi la coglie Kubrick, tra i pochi registi a capire la musica che usava. Alex in Arancia meccanica ascolta la Nona che gli ispira le pulsioni più perverse. Il contrario del suo significato (stessa cosa con Singin’ in the Rain). Da veicolo di amore universale la Sinfonia diventa motore d’odio. Un rovesciamento semantico che funziona solo perché l’esecuzione è affidata all’elettronica. Se togli l’umanità dalla Nona la speranza svanisce, e senza speranza resta solo violenza. Kubrick lo sapeva. Se Beethoven avesse ascoltato la versione affidata ai sintetizzatori magari avrebbe strappato il frontespizio. O forse no, dipende dal periodo.

di Marcello Filotei