· Città del Vaticano ·

Il racconto

La casa vuota
del signor Villari

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15 dicembre 2020

Pubblichiamo uno stralcio da «L’attesa» (La espera – 1950) di Jorge Luis Borges, tratto dalla raccolta di racconti «L’Aleph».

La vettura lo lasciò al numero quattromilaquattro di quella via del nordovest. Non erano ancora le nove della mattina; l’uomo notò approvando i platani maculati, il quadrato di terra ai piedi di ciascuno di essi, le decorose case con balconcino, la vicina farmacia, le scritte scolorite dei negozi di colori e cornici e di ferramenta. Un lungo e cieco muro d’ospedale chiudeva la strada di fronte; il sole riverberava, più lontano, in una serra. L’uomo pensò che quelle cose (allora arbitrarie e casuali e in un ordine qualunque, come quelle che si vedono nei sogni) sarebbero divenute col tempo, se a Dio fosse piaciuto, invariabili, necessarie e familiari. Sulla porta a vetri della farmacia si leggeva a grandi lettere: Breslauer; gli ebrei stavano prendendo il posto degli italiani, i quali avevano preso il posto dei nati nel paese. Meglio così; preferiva non trattare con gente del suo sangue.

L’autista l’aiutò a calare il baule; una donna dall’aria distratta o stanca apri la porta. Dal sedile, l’autista gli restituì una delle monete, un ventino uruguayano che gli era rimasto in tasca da quella notte nell’albergo di Melo.

L’uomo gli dette quaranta centesimi e subito pensò: «Ho l’obbligo d’agire in modo che tutti mi dimentichino. Ho commesso due errori: ho dato una moneta d’un altro paese, ho fatto vedere che lo sbaglio m’importa». Preceduto dalla donna, attraversò l’ingresso e il primo cortile. La stanza che gli avevano riservata dava, fortunatamente, sul secondo. Il letto era di ferro, che l’artefice aveva deformato in curve fantastiche, in figure di rami e di pampini; c’era inoltre un alto armadio di pino, un tavolino, una scansia con libri al livello del suolo, due sedie spaiate e un lavabo col catino, la brocca, la saponiera e un bottiglione di vetro opaco. Una mappa della provincia di Buenos Aires e un crocifisso adornavano le pareti; la carta era paonazza, con grandi pavoni a coda spiegata che si ripetevano. L’unica porta dava sul cortile. Bisognò variare la collocazione delle sedie per fare entrare il baule.

L’inquilino approvò tutto; quando la donna gli chiese come si chiamasse, disse Villari, non come una sfida segreta, né per mitigare un’umiliazione che in realtà non sentiva, ma perché quel nome l’ossessionava, perché gli fu impossibile pensare a un altro. Non lo sedusse, certamente, l’immaginazione letteraria che assumere il nome del nemico potesse essere un’astuzia.

Il signor Villari, al principio, non lasciava la casa; passate alcune settimane prese ad uscire per un poco, all’annottare. Qualche sera entrò nel cinematografo che si trovava tre isolati più avanti. Restò sempre nell’ultima fila, e s’alzava un po’ prima della fine dello spettacolo. Vide tragiche storie della malavita, che racchiudevano errori, ma anche immagini che erano appartenute alla sua vita anteriore; ma Villari non se ne accorse, perché l’idea d’una coincidenza tra l’arte e la realtà gli era estranea. Docilmente cercava di far sì che le cose gli piacessero; voleva prevenire l’intenzione con cui gliele mostravano. A differenza di coloro che hanno letto romanzi, non si vedeva mai come personaggio artistico. Non gli giunse mai una lettera né un foglietto pubblicitario, ma leggeva con imprecisa speranza una delle sezioni del giornale. La sera, accostava alla porta una delle sedie e sorbiva con gravità il male, gli occhi sulla pianta rampicante del muro della casa di fronte. Anni di solitudine gli avevano insegnato che i giorni, nella memoria, tendono a uguagliarsi, ma che non c’è un giorno, neppure di carcere o d’ospedale, che non porti una sorpresa, che non sia, controluce, una rete di minime sorprese.

di Jorge Luis Borges