· Città del Vaticano ·

DANTE E I PAPI
L’influsso dell’Alighieri sul magistero di Giovanni XXIII

Una delle fonti
del pensiero teologico

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14 dicembre 2020

Se la ricerca che stiamo conducendo avesse voluto mettere a confronto l’enciclica In praeclara summorum di Benedetto XV o la Lettera apostolica Altissimi cantus di Paolo VI con le poche e brevi citazioni dantesche, presenti nei documenti giovannei, forse codesto articolo non avrebbe potuto essere scritto. Invece l’intuizione presente nel volume di monsignor Elio Venier (Dante cristiano impegnato, 1989) ci permette di aggiungere una tessera allo splendido, direi ravennate, mosaico dell’Opera del Papa Buono, il mosaico del concilio Vaticano II, se questo evento voluto da Angelo Giuseppe Roncalli ha segnato l’incontro tra le istanze del cattolicesimo sociale e i fondamentali della tradizione dogmatica e teologica. Seguendo le tracce di Venier, ultimo docente di Teologia dantesca (1968/1970) presso la Pontificia Università Lateranense, possiamo proporre questa ipotesi di lavoro che ulteriori studi potrebbero avvalorare: Dante è una delle fonti del pensiero teologico di Angelo Roncalli. Pertanto indichiamo tre cause, ma anche conseguenze, di questa affermazione: la formazione teologica e spirituale, la scelta del nome Giovanni XXIII, la ri-fondazione della cattedra di Teologia dantesca (a.a. 1961/1962), in coincidenza con la fase preparatoria del concilio.

Il primo indizio riguarda la formazione spirituale e teologica di Angelo Giuseppe Roncalli, che avviene negli anni del papato di Leone XIII. L’anno in cui il futuro Papa entra nel Seminario-Collegio Sant’Alessandro di Bergamo è il 1892 (ne uscirà nel 1901), lo stesso anno in cui è pubblicato l’ultimo volume del Dizionario dantesco (1885-1892) di monsignor Giacomo Poletto, che, in quello stesso seminario di Bergamo, aveva insegnato prima di essere chiamato a Roma, da Leone xiii, per la prima cattedra di studi danteschi istituita in Italia, presso l’Istituto Leoniano di Alta Letteratura. Poletto nel 1898 pubblica La riforma sociale di Leone xiii e la dottrina di Dante Alighieri, una riflessione certo non peregrina sul papato leoniano. Tre anni dopo, grazie a una borsa di studio, Roncalli arriva a Roma (gennaio 1901) per iscriversi al secondo anno di teologia del Seminario Romano di Sant’Apollinare, dove frequenterà per ben quattro anni la cattedra di studi danteschi (cfr. A. Roncalli, Il Giornale dell’Anima. Soliloqui, note e diari spirituali, 2003), allora ricoperta da Padre Stefano Ignudi, francescano conventuale, supplente di Poletto negli anni 1896-1904 a causa della malattia di quest’ultimo. Negli anni della formazione teologica Roncalli conosce e diventa amico di Ernesto Bonaiuti (poi massimo esponente del Modernismo), compie il servizio militare a Bergamo e quando torna a Roma (dicembre 1902) il rettore del Seminario dell’Apollinare gli dà l’incarico di prefetto degli studenti più giovani; partecipa con vivo interesse agli eventi storici di quel periodo come il passaggio a Roma di Edoardo VII d’Inghilterra (29-4-1903), la visita al Papa di Guglielmo II di Germania (2-2-1903), l’elezione al pontificato di Pio X (9-8-1903). Matura così la sua Coscienza della Storia (così Romano Guardini in riferimento a Dante), parallelamente alla consapevolezza e conoscenza della tradizione teologica e dogmatica della Chiesa. Il 13 luglio 1904 Roncalli consegue la laurea in teologia, avendo come assistente il professor Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, e il 10 agosto, viene ordinato sacerdote. È difficile riassumere in poche righe le Opere e i giorni dei 54 anni che separano l’ordinazione sacerdotale dall’elezione al soglio pontificio, l’impegno in entrambe le guerre mondiali a favore dell’ecumenismo e della pace fra i popoli e le nazioni, ma almeno possiamo dire che sia da vescovo come da cardinale e, trionfalmente, da Papa, Roncalli ha potuto realizzare quella mirabile sintesi che Dante descrive nei canti XI e XII del Paradiso, nei quali san Tommaso d’Aquino fa l’elogio di san Francesco e san Bonaventura fa l’elogio di san Domenico, una sintesi in cui non c’è contrasto ma complementarità tra il dogma tomistico e il pauperismo francescano, germogliati dallo stesso seme del Vangelo. È una prospettiva di pensiero e un’idea di Chiesa, come dimostrerà la Pacem in terris, in cui la teologia coglie i segni dei tempi (Matteo, 16, 3), traducendosi in civiltà morale, giustizia sociale, bene comune, amore per i poveri e gli ultimi. L’enciclica, che porta la data dell’11 aprile 1963, è in qualche modo la Summa Theologiae di una vita consacrata e di un pontificato cominciato il 28 ottobre 1958, quando la scelta del nome non era stata casuale. Si racconta che un mese prima, a Lodi, visitando la quadreria del palazzo vescovile e scambiando un quadro di Pio VI per quello dell’antipapa Giovanni XXIII, il cardinale Roncalli avesse affermato: «Fu un antipapa, ma ebbe il merito di indire il Concilio di Costanza, che restituì l’unità alla Chiesa dopo lo Scisma d’Occidente». In verità la legittimità di Baldassarre Cossa-Giovanni XXIII (1370-1419) non era stata mai veramente negata per cinque secoli, fino al 1947, quando il suo nome fu espunto dall’annuario pontificio (nella basilica di San Paolo fuori le Mura, nei tondi che raffigurano i Papi, compare Giovanni XXIII al suo posto cronologico). Scegliendo di chiamarsi Giovanni XXIII, Roncalli non riconosceva come Papa il suo omonimo predecessore, ma, nello stesso tempo, ne richiamava l’opera unificatrice all’interno della Chiesa, come avrebbe fatto lui stesso nei confronti delle Chiese cristiane non cattoliche all’interno del Vaticano II. Baldassarre Cossa, eletto papa il 10 maggio 1410, fu figura-cardine per la soluzione dello scisma d’Occidente (1378-1418), portando avanti, anche da cardinale, la tesi di un concilio ecumenico che mettesse fine alla controversia tra le osservanze, romana, pisana e avignonese, trasformatasi in lotta politica tra Stati, un concilio, che, in quanto tale, avesse un potere superiore a quello del Papa. Da cardinale indisse nel 1408 il concilio di Pisa e, dopo la sua elezione papale, sollecitato da Sigismondo di Lussemburgo, il concilio di Costanza (1414-1417) che pose fine allo scisma, con l’elezione dell’unico Papa Martino V, riconosciuto legittimo Pontefice dallo stesso Giovanni XXIII. Successivamente Martino V, volendo concretizzare una disposizione del concilio di Costanza, che prevedeva la tenuta periodica di un concilio della Chiesa cattolica, indisse nel 1431 il concilio di Basilea, poi continuato a Ferrara, Firenze e Roma con le finalità di: trattare l’unione con la Chiesa ortodossa; estirpare l’eresia hussita; riformare la Chiesa. Questi riferimenti tardo-medievali riguardano anche e soprattutto Dante poiché a Costanza, a Dante, nella sede del concilio, venne riconosciuto il suo ruolo nella riforma della Chiesa, da parte del vescovo Giovanni Bertoldi da Serravalle. Il dantista, per esortazione di alcuni prelati inglesi, durante lo svolgimento del concilio, aveva portato a termine una traduzione latina della Commedia (gennaio-maggio 1416) e il commento alle tre cantiche (febbraio 1416-gennaio 1417). In quell’atmosfera di riforma della Chiesa in capite et membris, il messaggio dantesco, privato degli elementi partigiani e contingenti, aveva acquistato all’improvviso una sua autorità e un suo significato e, dopo il rogo del Monarchia, ordinato dal cardinale Bertrand du Pouget, legato papale negli anni 1320-1327, si riconosceva finalmente l’importanza dell’accorato appello di Dante per la riforma spirituale della Chiesa. Non dissimile l’atteggiamento di Enea Silvio Piccolomini, il primo Papa dantista Pio II, presente al concilio di Basilea, con l’incarico di Abbreviatore, al servizio presso Kaspar Schlick, cancelliere imperiale alla corte di Federico III, quando l’umanesimo europeo era già impregnato dell’opera di Dante. Considerando cosa ha significato per la Chiesa cattolica il Vaticano II non sembri ridondante la comparazione con quanto avvenne a Costanza e a Basilea. L’assise di Roma, annunciata da Papa Giovanni il 25 gennaio 1959, ufficialmente indetta il 25 dicembre 1961, fu solennemente aperta l’11 ottobre 1962 con il celebre discorso Gaudet Mater Ecclesia: «Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione». Emerse fin da subito la natura marcatamente pastorale del concilio, un’aura spirituale che, in quei mesi, circonda la volontà di Papa Giovanni di rifondare la cattedra di teologia dantesca. Nel 1960, presso la Lateranense, monsignor Giovanni Fallani, eminente dantista, aveva fondato l’Istituto Patristico medievale e Papa Giovanni nella stessa università era stato docente preclarissimus di Patrologia. Pertanto nell’anno accademico 1961/1962, in coincidenza con la fase preparatoria del concilio, il corso dantesco fu reinserito nell’Istituto Patristico medievale come approfondimento della facoltà di teologia. Non sono coincidenze casuali: un attento interprete della spiritualità di Dante come monsignor Marco Frisina (La Divina Commedia — L’Opera. L’Uomo che cerca l’Amore, 2007) ha dedicato alla Pacem in terris (2002) una melodia di uguale risonanza interiore e, nel 2014, l’Inno a Giovanni XXIII, Pastore buono del gregge di Cristo, il cui ritornello così riechegia: «Testimone di pace / Testimone d’Amore / Servo umile e forte / della Bontà del Signore» con appassionato richiamo a «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, / umile e alta più che creatura» (Paradiso XXXIII, 1-2).

di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo