· Città del Vaticano ·

Dalle fratellanze alla fratellanza

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11 dicembre 2020

Ci sono buone e cattive fratellanze, lo sappiamo tutti per vivida esperienza storica. Il Vangelo lo ribadisce, nell’abbinare il comandamento della fraternità misericordiosa e la dura presa di distanza (Mc 3, 31-34; Mt 12, 46-50; Lc 8, 19-21) da quelle fratellanze familiari e tribali, che elevano il sangue e il suolo a idoli primari, impermeabili all’accoglienza del vincolo di misericordia iscritto nella comune filiazione dal «Padre nostro che sta nei cieli».

La fratellanza evangelica non è il legame istituito dalla positività di tradizioni e comunità sociali e biologiche, che possono sì essere una ricchezza antropologica straordinaria, ma possono anche degenerare in un dispositivo profondamente antievangelico di particolarismo, esclusione sociale del diverso. Diventano allora moltiplicatori di odio e divisione invece che di condivisione, dialogo, solidarietà. La fratellanza evangelica è comunione interumana che discende dalla «volontà» del Padre ed è adempiuta dall’impegno umano perché questa volontà sia «fatta in terra come in cielo», perché la trascendenza della nostra chiamata di figli di Dio si coniughi in forme di vita e di convivenza terrene. La differenza tra questi due tipi di fratellanza, quella puramente terrena e quella del compimento terreno della volontà celeste, è formulata con grande chiarezza nel dialogo tra Gesù e un dottore della Legge che incornicia la parabola del buon Samaritano, cuore della recente enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, straordinaria lezione sulla fraternità evangelica come «icona illuminante» (67) la verità di quella umana.

Il messaggio del documento papale sta tutto nel percorso di apprendimento, correzione, purificazione, instaurato dalla parabola per convertire la domanda del dottore della Legge, «Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”», nella domanda con cui gli risponde Gesù: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».

Dal punto di vista della «vita eterna», replica Gesù al suo interlocutore, la domanda identitaria: «chi è come me?», lascia il posto all’interrogativo performativo: «come farmi vicino all’altro?». Quello che ci è richiesto non è di definire chi sia il nostro prossimo, di stabilire criteri descrittivi o normativi di identificazione del “vicino”, di chi ha «diritto legale» al nostro amore. La fraternità evangelica non è una categoria astrattamente antropologica (tutti gli uomini sono fratelli) o concretamente storica (fratelli d’Italia), biologica (membri di un nucleo familiare), culturale (latori di una stessa tradizione), religiosa (fratelli nella fede). È oltrepassare e purificare tutte queste categorie, pienamente legittime, evidenziando la loro insufficienza nell’intercettare l’intuizione spirituale che si esprime come «compassione» e «amicizia» (due parole chiave dell’enciclica): l’urgenza di rispondere all’appello che sgorga dalla comune condizione creaturale con il suo carico di vulnerabilità, fragilità, sofferenza, errore, ma anche speranza, dignità e capacità di amore. È riconoscere una situazione di bisogno, di limite, come appello di responsabilità e condivisione. È andare in cerca di quello che ci accomuna nella distanza delle rispettive forme di vita.

Essere prossimo è farsi prossimo, come kenótico avvicinamento a chi è più in basso di noi: piegarsi su chi è disteso a terra e non ha titoli per rivendicare la nostra cura. «Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri» (81), sottolinea il Papa. Nella prospettiva evangelica è prossimo chi varca i confini, del territorio delle proprie appartenenze, delle proprie identità, per raggiungere il lontano, includerlo, prenderne cura, come quel Cristo che si è “abbassato” per avvicinarsi agli uomini, divenire «come» loro, assumendo la condizione di servo (Fil 2, 7).

Questo movimento compassionevole di condivisione che ci rende prossimi del lontano nel riconoscimento della comune creaturale vulnerabilità non è ovviamente prerogativa cristiana: è uno dei fiori più belli che sbocciano incessantemente nel «legno torto dell’umanità», come sottolinea l’enciclica con sguardo di meravigliosa ospitalità antropologica, ma trova nella parola evangelica la più compiuta illustrazione della sua radice trascendente. Per questo «la musica del Vangelo», sottolinea il Papa, è «la melodia che ci provoca a lottare per la dignità di ogni uomo e donna» (277), è fonte di quella «gioia» che si converte spontaneamente in dono di responsabilità e cura, è nucleo «dell’identità cristiana» e del contributo che essa può dare al bene comune delle società e dei popoli, facendosi motore di azione sociale e politica (176-197).

Pensare «l’identità cristiana» come «musica del Vangelo», come «melodia», è la straordinaria proposta dei paragrafi 277 e 278 dell’enciclica ed è molto più che una suggestiva metafora poetica. La musica è grazia di bellezza e non legge di potere, è esperienza intima condivisibile in momenti di pubblica fruizione: attraverso la musica, la bellezza, scopriamo chi siamo, e scopriamo di esserlo insieme agli altri, che la amano come noi.

L’identità cristiana non è fondamento di una fratellanza particolare dentro l’umanità, che ritaglia un corpo separato di sodali, ma è una «casa con le porte aperte» a tutta l’umanità (276), una «madre» che genera e accoglie, una musica che risuona come gioia di comunione cattolica, cioè universale. È dunque incarnazione storica concreta della fratellanza generata dalla volontà trascendente del Padre celeste, che non esclude, non sceglie i vicini per tener fuori i lontani (all’insegna del “prima noi”), che attesta alle molteplici fratellanze terrene la verità di cui sono portatrici, ricordando che essa viene tradita quando si fa chiusura, delimitazione di territorio e di privilegi rabbiosamente, quando non sanguinosamente, rivendicati (142-154).

La fraternità è «scoperta» donata dallo Spirito, dice la «Preghiera cristiana ecumenica» che conclude l’enciclica, che illumina ogni popolo e ogni individuo come «volti differenti della stessa umanità amata da Dio». La fraternità è un viaggio in cui ogni cristiano, ogni uomo di buona volontà deve incamminarsi, per scoprire la diversità e l’alterità come manifestazione di Dio affidata alla sua operosa accoglienza, al suo farsi «fratello universale», come il beato Charles de Foucauld, il mistico traduttore ed esploratore, incarnazione di un apostolato della testimonianza prima che della predicazione, «caduto nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo morto». Il Vangelo si incarna in chi spezza il pane della sua Parola, facendosi verità di vita, potenza di santificazione. Sul «piccolo fratello» che ha convertito l’esperienza della guerra in parola di pace si chiude la Fratelli tutti, che incastona così la propria riflessione tra due esempi di violenza fratricida, trasfigurati in icone di fraternità universale dalla carità della compassione e del martirio.

di Teresa Bartolomei