· Città del Vaticano ·

Quarant’anni fa moriva John Lennon

Un talento visionario e ingenuo

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07 dicembre 2020

Domani saranno quarant’anni dalla morte di John Lennon. Una morte inattesa e sconvolgente, come tutte le morti violente. Eppure ancora oggi lo ricordiamo con nostalgia. Quella che ti assale quando ripensi a qualcuno che ti ha tenuto compagnia per un tratto di strada, con il quale hai condiviso momenti belli o brutti della tua vita. Lui lo ha fatto attraverso le canzoni, prima con i Beatles — con i quali ha rivoluzionato la musica e il costume di un’epoca — e poi da solo, mettendo la fantasia al servizio delle idee, fino a identificare l’arte con la vita. Una totale sovrapposizione, attraverso cui esprimeva il suo temperamento irrequieto, più anarchico che sovversivo.

John Lennon era stato uno dei Beatles, con tutto ciò che comportava nel bene e nel male, e a un certo punto aveva deciso di sfruttare il successo per dire qualcosa di diverso, spendendosi per cause ritenute giuste e che all’epoca coinvolgevano un’intera generazione. Aveva deciso di metterci la faccia, e non solo, con serietà, consapevole che la musica, le parole e i gesti hanno un peso, ma sempre senza prendersi troppo sul serio. Certo lo ha fatto con modalità inedite, talvolta stravaganti, insieme a Yoko Ono, come i famosi bed-in, conferenze stampa fatte dal letto di una stanza d’hotel. Eppure la sua musica e i suoi messaggi lo hanno reso un’icona del suo tempo. Un’icona che ancora oggi riesce ad affascinare.

C’è chi lo vede come un rivoluzionario, anche se la sua Revolution non coincideva col sentire dei tanti pronti alla violenza. Di certo aveva sostenuto campagne contro la guerra, cantando di dare un’opportunità alla pace, ma anche potere al popolo (con pugno chiuso ed elmetto in copertina), senza dimenticare di mettere in guardia la classe operaia dai trucchi della borghesia. Uno di sinistra per qualcuno, un comunista sovversivo per l’Fbi, un utopista provocatore, un nichilista con tante contraddizioni, per altri. Era infatti quello iconoclasta di God, in cui non salva nessuno dei miti del decennio, nemmeno i Beatles. Ma anche quello di Imagine, la sua canzone più famosa e rappresentativa, divenuta, piaccia o no, un inno generazionale universale, in cui c’è dentro tutto, con quei versi perfetti per quegli anni nella loro visionaria ingenuità, ma che oggi pagano il prezzo del tempo.

Sì, John Lennon è stato tutto questo. Ma a noi piace ricordarlo soprattutto per il suo talento immenso. Un artista capace di creare bellezza attraverso la musica, qualcosa che ha toccato milioni di cuori, regalando emozioni. Perché questo fa la buona musica. E nella sua è impossibile non riconosce i tratti del genio. Dei Fab Four era quello con l’animo più inquieto. E l’inquietudine quando incontra un’intelligenza acuta può generare cose sorprendenti. A lui si debbono le più brillanti invenzioni linguistiche nella poetica beatlesiana — chi altri avrebbe potuto scrivere I Am The Walrus? — e la creazione di sonorità sconosciute e impensabili. Sonorità che non si coglievano fino a quando lui non le trasformava in qualcosa di nuovo e di interessante, come, ad esempio, in Tomorrow Never Knows.

Ma dietro al talento si celava l’uomo, con la sua storia, le sue esperienze, le sue debolezze. Uno per il quale l’arte, vissuta con passione fino alla sovrapposizione uomo-artista, è diventata occasione di riscatto. «La cosa più difficile è affrontare se stessi», confidò in una delle ultime interviste in cui sembrava pacificato con il suo passato turbolento, a partire da un’infanzia difficile.

Nato sotto un bombardamento tedesco, cresciuto senza padre e con una madre poco presente e comunque persa troppo presto, affidato alle cure della nota zia Mimì, John cercò nella musica una valvola di sfogo. E quando si compì il prodigio dell’incontro che gli avrebbe cambiato la vita — la sua e quelle dei suoi tre amici di Liverpool, influenzandone milioni di altre nel mondo — cavalcò l’onda del successo, tra fama ed eccessi, fino a sentirne per primo l’asfissiante oppressione. E a volersene liberare per lasciare, lontano dall’isteria dei concerti, per dare libero sfogo alla creatività, quella dei dischi memorabili dei Beatles. Fino al clamoroso addio.

Ma se Yoko Ono ha portato per anni il peso della colpa di una separazione che lasciò nello sconforto milioni di fan, la storia ha raccontato alla fine una verità diversa. L’alchimia dell’accoppiata Lennon-McCartney, come l’amicizia, si era dissolta da tempo. John voleva trovare un’altra strada, per seguire la sua vena artistica. Lo si era capito già dalle ultime composizioni con i Beatles e la conferma arrivò dai primi lavori da solista e dalle prime performance che li accompagnarono.

Quarant’anni dopo non ci chiediamo più cosa ci siamo persi, quante altre perle immortali ci avrebbe regalato, vista la ritrovata creatività rivelatasi in Double Fantasy, album pubblicato dopo sei anni di silenzio. Anche se un pizzico di rammarico resta. Come pure la sensazione che a settanta o ottant’anni — tanti ne avrebbe festeggiati lo scorso 9 ottobre — non si sarebbe prestato a salire su un palcoscenico imbracciando una chitarra. Troppo autoironico per caderci. Magari sarebbe tornato a coltivare la sua verve di scrittore surreale amante del non-sense, o al disegno, con quegli schizzi essenziali che i fan conoscono bene. In ogni caso ci ha pensato il destino, un infausto destino, a consegnarlo al mito, preservandocelo per sempre nel ricordo come un uomo di quarant’anni dall’aspetto giovanile, lo sguardo sempre scanzonato, ma meno provocatorio di un tempo, segno di una raggiunta maturità e di una maggiore consapevolezza di sé nel mondo.

Perché alla fine anche lui si è scoperto fragile, intento a interrogarsi se fosse poi tutto giusto e tutto vero dietro a quell’atteggiamento anticonvenzionale, rivoluzionario, che aveva incarnato. A chiedersi se non avesse rinunciato a troppe cose più importanti, visti gli ultimi cinque anni trascorsi in famiglia, a crescere il piccolo Sean, scoprendo che «la vita è quello che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti», come gli confida nella tenera canzone Beautiful Boy (Darling Boy) dedicatagli nell’ultimo album. E quell’8 dicembre di 40 anni fa John Lennon era sicuramente impegnato a fare altri progetti. Una mano omicida ha impedito che venissero realizzati. Ma molto aveva già dato come artista. Perché altrimenti non staremmo qui a scriverne ora, continuando ad ascoltare, quando sopravanza la nostalgia, le sue meravigliose canzoni.

di Gaetano Vallini