· Città del Vaticano ·

L’opera omnia
Filosofia dell’incontro e del dialogo

Lo spazio dell’altro

Il cardinale Carlo Maria Martini nel 1996 durante i festeggiamenti per il decennale dell’incontro interreligioso di Assisi
01 dicembre 2020

Dialogo può apparire un’espressione debole soltanto agli impauriti. Oltre mille pagine di incontri, nel quinto volume dell’opera omnia di Carlo Maria Martini, dispiegano la forza irresistibile di un’identità solida, perché aperta a sostenere lo sguardo e la voce altrui. Fratelli e sorelle. Ebrei, cristiani, musulmani (Milano, Bompiani, 2020, pagine 1136, euro 25) — introdotto e curato da Brunetto Salvarani, prefazione di Walter Kasper — non solo rivela il radicamento nel cammino ecclesiale dell’ultima enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, ma contribuisce — se possibile — ad approfondirne le fondamenta. La raccolta, infatti, nella parola del cardinale ospita interlocutori e circostanze, sfide, situazioni evangelizzate in molte parti del mondo. Evangelizzate, perché da cima a fondo Martini è attraversato dalla domanda: «Può la Chiesa rinunciare ad annunciare il Vangelo?».

Conviene seguirlo in un ricordo, condiviso pubblicamente nel 1999: «Lunedì scorso, 18 gennaio, ho avuto modo di visitare quella che fu per molti anni la casa di Martin Buber, a Heppenheim, presso Francoforte. Ho avvertito una forte emozione nel trovarmi in quelle stanze e, in particolare, nello studio dove il grande filosofo ebreo — nato a Vienna nel 1878 e morto a Gerusalemme nel 1965 — scrisse tanti libri e lavorò alla famosa versione della Bibbia ebraica in tedesco. È anche tra quelle pareti che fu pensata la filosofia dell’incontro e del dialogo, che fu ribadita la concezione dialogica dell’io secondo la quale è nel dialogo, nel rapporto con l’altro che l’io realizza se stesso e diviene persona». Come osserva il cardinale Kasper nell’introduzione al volume: «La seria filosofia del dialogo di Martin Buber e di Emmanuel Levinas era molto apprezzata in quegli anni. Decisivo per Martini, stimato biblista, fu soprattutto il fatto che il dialogo è una caratteristica fondamentale delle testimonianze della Rivelazione sia nell’Antico, sia nel Nuovo Testamento e perciò è ancorato all’essenza più profonda della stessa fede cristiana. (…) Per lui l’ascolto della Bibbia era sempre legato all’ascolto delle persone e dei loro bisogni e per lui queste persone non erano solo quelle colte, ma anche quelle semplici, credenti e non credenti, laici e preti con i loro bisogni, e non ultimi i giovani con le loro domande. Come ha mostrato Martin Buber, ciascuno di questi dialoghi da persona a persona si muove in un’area di relazione (das Zwischen), nella quale qualcosa rimane non detto e come in una sorta di limbo. Questa comprensione del dialogo che sa ascoltare ha attirato su Martini grande attenzione. Se si tolgono le sue affermazioni da quest’area intermedia e se ne fanno dichiarazioni apodittiche, allora sorgono inevitabilmente dei malintesi, ai quali neanche Martini è sfuggito».

La domanda si fa radicale: può l’annuncio della Chiesa avvenire su un terreno diverso da quest’area intermedia? Può comunicarsi il Vangelo senza prima il silenzio del non esser subito detto? Non è diabolico, sin dal grido levatosi contro Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dichiarare la sua identità senza sostenere la fatica e i tempi di un cammino? I dialoghi di Martini rivelano come lo spazio dell’altro sia creato da una reale frequentazione del Mistero: il modo in cui insegna a praticare il testo biblico, perché la lectio diventi contemplatio, si trasferisce nell’approccio umile e interrogante a ogni testo non scritto, racchiuso nelle vicende personali e sociali attraverso le quali il Regno di Dio chiama. Sociali, perché come dalla contemplazione, così dall’incontro scaturisce azione. «Dinanzi alle sfide del mondo contemporaneo — disse in un incontro promosso dal Consiglio delle Chiese cristiane di Milano — il compito di servire Dio “spalla a spalla” (Sofonia 3, 9), lavorando insieme per la giustizia e la pace, rimane un’opera di dimensioni immense, che richiede di coltivare alcuni atteggiamenti spirituali. Si tratta infatti di collaborare con Dio da uomini liberi, per le-taqqem olam be-malchuth Shaddai (“restaurare nel mondo la Signoria dell’Altissimo”)».

Come il sottotitolo e la tripartizione del volume recepiscono, per Martini il rapporto con la signoria di Dio «è innanzitutto amore per Israele. L’amore per Israele, il popolo primogenito dell’Alleanza, non è per noi un’opzione; è un imperativo teologico che condiziona l’annuncio della Salvezza». Biograficamente, sono innumerevoli i riscontri del vincolo avvertito dal cardinale, prima ancora che con Gerusalemme e la Terra Santa, con il popolo ebraico: una ricerca che è di altro, ma in realtà di sé. Ne vengono affermazioni paradigmatiche: «In proposito, occorre riconoscere che esiste una certa asimmetria tra Israele e la Chiesa, e che tale asimmetria ha una dimensione teologica e conseguenze e implicazioni storiche ed etiche. Essa non è forse, in fondo, un’icona mirabile dell’asimmetria dell’amore gratuito e preveniente di Dio per l’uomo, un amore smisurato, che perdona, condivide, soffre con ogni uomo umiliato e offeso, con la vedova, con l’orfano e lo straniero, e che attraverso questa condizione vuole per tutti la liberazione dal male? L’amore appassionato di Dio Padre si rivela primariamente per Israele e noi cristiani ne possiamo contemplare il volto paterno e materno leggendo, meditando e pregando la Bibbia degli ebrei, che la nostra Chiesa riceve con umiltà e gratitudine da Israele come primo libro sacro».

Su un tale sfondo, misurandosi, da vescovo di una grande metropoli, con la non credenza — quella ideologico-militante e poi quella post-moderna — e con la presenza islamica crescente, Martini arriva lucidamente a cogliere una distinzione: «Altro infatti è l’annuncio, altro è il dialogo. Il dialogo parte dai punti comuni, si sforza di allargarli cercando ulteriori consonanze, tende all’azione comune su campi in cui è possibile subito una collaborazione, come sui temi della pace, della solidarietà e della giustizia. L’annuncio è la proposta semplice e disarmata di ciò che appare più caro ai propri occhi, di ciò che non si può imporre né barattare con alcunché, di ciò che costituisce il tesoro a cui si vorrebbe tutti attingessero per la loro gioia. Per il cristiano il tesoro più caro è la croce, è il mistero di un Dio che si dona nel suo Figlio fino ad assumere su di sé il nostro male e quello del mondo, perché ne usciamo fuori. Non sempre questo annuncio può essere fatto in modo esplicito, soprattutto nelle società chiuse e intolleranti. È il caso oggi non infrequente in alcuni Paesi. Ma pure nei Paesi cosiddetti “liberi” ci si scontra talora con chiusure mentali così forti da costituire quasi una barriera».

E dunque, che fare? Dalla basilica di Sant’Ambrogio, culla millenaria del cattolicesimo milanese, l’arcivescovo indica il vero funzionamento della tradizione, contro tutte le involuzioni identitarie che ne tradiscono l’essenza: «È interessante notare che la comunità di Ambrogio era una comunità religiosamente minoritaria. Due terzi della popolazione che in quel tempo abitava nella zona di Milano non era cristiana. Eppure sembra che a Milano non esistesse un ministero organizzato per l’evangelizzazione dei pagani. Nel De officiis ministrorum Ambrogio non dà alcuna istruzione ai chierici per il lavoro di conversione dei pagani. La via ordinaria per la quale essi venivano a conoscenza del cristianesimo era la frequenza libera alla predicazione, aperta a tutti, il colloquio col vescovo come nel caso di Agostino e specialmente il contatto con i cristiani e la loro condotta esemplare. Ambrogio poneva la sua cura nel far progredire la comunità cristiana come tale». Rosenberg avrebbe detto: la tradizione del nuovo.

di Sergio Massironi