· Città del Vaticano ·

Il paradigma di ogni possibile antirazzismo

Alla ricerca dei padri

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28 novembre 2020

Il paradigma di ogni possibile antirazzismo


Mio padre era stato un bambino abbandonato. Credo che tale condizione sia all’origine della tensione pedagogica e letteraria che mi anima. Come se io, attraverso l’insegnamento e la scrittura, volessi idealmente risarcirlo e riscattarlo per interposta persona, cioè cercando di aiutare, nella misura in cui l’azione riparatrice si può concretamente realizzare, gli adolescenti italiani in difficoltà e i minori non accompagnati provenienti da ogni parte del mondo. 

Fu questa la ragione che, tanti anni fa, mi convinse a entrare alla Città dei Ragazzi di Roma, la comunità educativa fondata nel secondo dopoguerra da monsignor John Patrick Carroll-Abbing per accogliere i bambini senza famiglia, dove incontrai Omar e Faris, insieme ai quali tornai in Marocco, quasi per toccare con mano la sorgente primaria del tumultuoso fiume d’umanità che non smette di arrivare sino a noi. E continua a essere questo, suppongo, il fuoco ispiratore delle scuole Penny Wirton che ho fondato, in omaggio a Silvio D’Arzo, con mia moglie Anna Luce Lenzi per insegnare gratuitamente, uno a uno, senza classi e senza voti, anche sullo stimolo sempre vivo di don Lorenzo Milani, la nostra lingua ai giovani migranti. Oggi, a causa della pandemia, lo stiamo facendo online in diverse zone d’Italia, ma speriamo di poter tor-nare presto a «riveder le stelle». Presento, sul tema in oggetto, due brani, tratti dalla  Città dei ragazzi  e dall’ultimo mio libro,  I meccanismi dell’odio:  dialogo sul razzismo con Marco Gatto anch’egli legato, per simili ragioni autobiografiche, al me-desimo nodo ispirativo sui padri e sui figli.

La paurosa libertà degli orfani


Questa è la storia di un viaggio all’indietro: sono partito dallo spazio magnetico in cui vivo, fra i banchi e i gessi, ho risalito i campi delle fughe solitarie, ancora cosparsi dalla putredine dei sogni che i miei scolari hanno lasciato lungo il percorso, e ora eccomi qui a dettare il saldo conclusivo. Abbiamo radici in comune: quello che succede a te, riguarda anche me. Perfino quando pensiamo di averla fatta franca, presto dobbiamo ricrederci: si prospera, e ci si decompone, insieme. Non godere della vicinanza dei propri genitori, per un motivo o per l’altro, apre un grande spazio d’azione dove, prima o poi, nel fiorire malato delle innumerevoli scelte da compiere, potremmo smarrirci. 

E se la paurosa libertà degli orfani fosse uguale a quella di tutti gli esseri umani di fronte a Dio? A cinquant’anni un uomo senza figli può desiderarne uno; io invece, spinto da una potenza oscura che brucia come un fuoco segreto dentro il mio stesso nome, cercavo i padri: quelli mancati, soprattutto. Pensai di scrutarne le fisionomie nei volti dei giovani ai quali insegno ogni giorno. Arrivano sulle sponde del Bel Paese da ogni parte del mondo lasciandosi dietro, come rottami, la povertà e l’indifferenza. Ho voluto risalire il fiume che li ha portati fino a me. Controcorrente, attraverso di loro, mi sono riconosciuto.

(La città dei ragazzi, Mondadori, 2008)


M.G.:
Ne  La città dei ragazzi  usi un’espressione che non poteva non colpirmi: «La paurosa libertà degli orfani». Credo sia la ragione profonda, umanamente profonda, del nostro dialogo. Non solo perché il senso di orfanezza ci appartiene per ragioni biografiche, ma anche perché è possibile generalizzare questa condizione ed estenderla a una buona porzione di società, in Occidente, oggi. Mi riferisco al disordine e al disorientamento, alla frammentazione dei valori e dei significati, al disfacimento euforico del passato: perdersi è molto semplice, ecco. Mi chiedo quale sia l’antidoto: se sia possibile ostacolare questa paradossale allegria di naufragi a cui ci siamo consegnati. Prima dell’azione concreta e dell’approdo a un senso di responsabilità condiviso dovremmo avere il coraggio di ripercorrere la ben nota zona grigia, nella quale tutte le certezze individuali e collettive sono ostaggio di una domanda profonda, la stessa che hai sentito a te rivolta dai ragazzi francesi e dai minori non accompagnati della comunità di Carroll Abbing.

E.A.:  Dieci anni fa mi spedisti alcune tue poesie giovanili, nelle quali io percepii, con un misto di angoscia e commozione, il sentimento del genitore ignoto: la piattaforma spirituale che ci accomuna. Se mio padre ne avesse avuto la possibilità, cioè se non avesse fatto soltanto la quinta elementare, avrebbe potute scriverle lui. Fra me e te si verifica quindi un cortocircuito senza la comprensione del quale rischia di sfuggire il fondamento del dialogo che stiamo facendo. È dunque necessario scoprire le carte: io, figlio di un uomo non riconosciuto dal padre, incontro te, nella medesima condizione. Ma tu, per ragioni anagrafiche, come abbiamo già detto, potresti essere mio figlio. Si tratta dello schema che innesca la tensione pedagogica da cui mi sento pervaso. Tuttavia nessuno dei miei studenti possiede la drammatica consapevolezza che, a poco più di vent’anni, ti spinse a scrivere: «Mi pento, / forse, di non aver capito prima / che non c’è seme unico a nutrire / una testa, ma doppie, triple, quadruple, / troppe biforcazioni».

Con ogni probabilità Rashedur, abbandonato sin da piccolo alla periferia di Dacca, avverte «d’essere un ramo spoglio di sostanza», ma non riuscirebbe in alcun modo a formulare ed ammettere, di fronte a se stesso, come al contrario sei stato capace di fare tu, l’idea di «un padre / che si allontana dalla culla». Mai e poi mai avrebbe la forza di pensare a lui esclamando: «Nel nome tuo e non per il tuo nome». E soprattutto, la sua condizione di «figlio ignoto», invece di favorirla, gli impedirebbe la vista della «sorda macchia» che da sempre caratterizza i bambini non riconosciuti, fra cui Ezio Comparoni, alias Silvio D’Arzo, autore di Penny Wirton e sua madre: «Essere anche te senza volerlo». Lo sforzo culturale che tu, Marco, hai compiuto per trasformare il sentimento di vuoto dell’orfano in pienezza e l’insoddisfazione esistenziale nella ricerca di verità presente negli autentici confronti umani, questo lavoro doloroso ma ineludibile che mio padre non riuscì a svolgere e io cerco di fare al posto suo, rappresenta il paradigma antropologico di ogni possibile antirazzismo: sarebbe davvero illusorio credere di poter delegare tale incombenza al precetto giuridico.

È vero: si tratta di una condizione che potremmo estendere storicamente a tutto l’Occidente. Trovo molto utile la definizione che usi per indicare la situazione in cui ci troviamo: «Disfacimento euforico del passato». La dimensione digitale rischia di far deflagrare il desiderio illudendoci che tutto possa essere realizzato. Di fronte al grande mare informatico che la Rete dispensa, occorre trovare bussole efficienti, capaci di orientarci nella selva dove tutto sembra uguale. Urge, come diciamo spesso, ripristinare le gerarchie spiegando ai ragazzi cosa è importante e cosa non lo è. Per farlo dobbiamo avere in testa un sistema di valori. Non esistono scorciatoie conoscitive. Oggi che la fonte è diventata accessibile in tempo reale, bisogna incrementare, non diminuire o peggio ancora omettere, la sua verifica. Applicazione e rigore un tempo erano legati alla ricerca del testo originale. Nel momento in cui quest’ultimo si rende accessibile a chiunque, c’è la concreta possibilità che non venga neppure preso in considerazione. Viene da lì la nostra paradossale «allegria di naufragi». Dovremmo ristabilire le condizioni attraverso cui rinnovare la nostra esperienza della realtà: non più solo virtuale. È necessario mettere allo scoperto i costi della conoscenza, non nasconderli o, peggio ancora, rimuoverli. In particolare bisogna esplorare i meccanismi dell’odio. Il razzismo avvelena i pozzi e inaridisce le fonti perché impedisce di riconoscere la fratellanza. E invece noi siamo legati da una radice comune: tocchi la nervatura e fai vibrare tutta la pianta.  In tale prospettiva l’educatore e lo scrittore sono due facce della stessa medaglia.

(I meccanismi dell’odio, Mondadori, 2020)

di Eraldo Affinati