Come quei pescatori del mar di Galilea che avevano lanciato invano le loro reti per tutta la notte, anche il giovane John quella notte si gettò a letto sentendo addosso la stanchezza inutile di tanti sforzi. Doveva comporre una canzone per il nuovo album dei Beatles, i tempi stretti, ma non veniva, niente da fare. Era quasi l’alba del 21 ottobre di 55 anni fa, l’umore sottoterra. John iniziò a pensare con amarezza e affetto alla sua vita che non aveva mai avuto un “dove”, un luogo in cui poggiare certezze e sentimenti. E in un attimo parole e note presero forma nel pentagramma della sua anima. Nasceva così Nowhere man, una delle canzoni più suggestive di tutti i tempi. Come tutti i capolavori nasceva dalla vita e nasceva come un dono insperato fino a un attimo prima.
He’s a real nowhere man / sitting in his nowhere land / making all his nowhere plans / for nobody.
È un’impresa tradurre in italiano i versi della canzone di John Lennon. E infatti nel web troverete mille traduzioni diverse. Nowhere è un avverbio, significa letteralmente “nessun dove”. Un nowhere man è un uomo senza un dove, senza un luogo, e non solo in senso geografico: uomo del nulla, inconsistente, inesistente. Bisogna conoscere un po’ l’infanzia del più inquieto e creativo fra gli “scarafaggi” di Liverpool per farsi un’idea di come queste parole per lui non suonassero come un mero esercizio linguistico. Venuto alla luce il 9 ottobre del 1940 (ottanta anni fa) durante un raid aereo tedesco, tra il suono delle sirene e il sibilo delle bombe. Il padre Alfred davvero non aveva un luogo. Il giorno dopo il matrimonio si era imbarcato come cameriere su una nave di lusso diretta verso le Indie occidentali. Due anni dopo, la separazione dalla moglie Julia; nel 1945, quando John ha cinque anni, vuole portare il figlio con sé in Nuova Zelanda. La mamma s’oppone e il bambino pure, scalcia e non vuole lasciare Liverpool per una terra ignota quanto lo era stato, fino ad allora, suo padre per lui. Ma succede che anche la mamma Julia fatichi a trovare un luogo affettivo stabile; nello stesso anno della separazione resta incinta di un soldato gallese, nasce una bambina ma la mamma non ha i mezzi per crescere entrambi i figli e la sorellina di John viene data in adozione. L’anno seguente John inizia ad essere sballottato tra la casa materna e quella della zia Mimi, (sposata ma senza figli) che rimprovera alla sorella Julia di non essere una brava madre. Diventerà famosa per quella raccomandazione che continuava a rivolgere al suo nipote adolescente il quale sembrava amare solo il disegno e il rock and roll: «Va bene la chitarra, John, ma non ti darà certo da vivere». Infatti.
Nel 1958 il ragazzo conosce un’altra prova tremenda. La mamma muore per strada, investita dall’auto di un poliziotto ubriaco. «Ho perso mia madre due volte — dirà John — quando avevo cinque anni e a diciassette anni. Fu un dolore immenso. Avevo appena ripreso un rapporto con lei quando fu uccisa». Dietro i volti sorridenti e a volte strafottenti dei Beatles si celano ferite e voragini affettive che la folla esultante ai loro concerti in gran parte ignora. Chi può immaginare infatti che a cementare il sodalizio umano tra John e Paul McCartney è anche la condivisione di un dolore comune? Entrambi orfani precocissimi di madre, Paul la perse nel 1956, per un tumore al seno, quando aveva 14 anni. Ma è John, per la sua storia familiare, a sentirsi di più un uomo senza un dove, un nowhere man. «Seduto su una terra inesistente, facendo tutti i suoi piani inesistenti, a nessuno destinati». Non era solo la condizione particolare di un bambino che mai si era sentito “voluto” e invano aveva cercato un luogo per la sua vita. Quella inconsistenza esistenziale, in fondo, era (in forme diverse) il tratto di una generazione intera, che cresceva senza radici e senza memoria
Doesn’t have a point of view / Knows not where he’s going to / Isn’t he a bit like you and me?
“Nowhere man non ha un punto di vista, non sa dove sta andando. Non è un po’ come te e me?”. Sì, siamo tutti, caro John, un po’ come lui e te. Siamo tutti un po’ uomini senza un dove. Alla ricerca di un luogo dove l’anima possa riposare finalmente e ognuno possa sperimentare di essere accolto e voluto così com’è. Ma c’è speranza di trovarlo un luogo così? In un’intervista rilasciata pochi mesi dopo l’uscita di Rubber soul, l’album che conteneva Nowhere man, John Lennon provocò un putiferio mondiale dicendo che fra i giovani del suo tempo i Beatles erano “più popolari di Gesù”. Negli Stati Uniti i cristiani fondamentalisti (c’erano già allora) insorsero contro le sue espressioni “blasfeme” accendendo nelle pubbliche piazze roghi riparatori con i dischi dei Beatles. Ma l’affermazione di John sul piano sociologico era incontestabile, nel 1965 era senz’altro maggiore il numero di giovani del pianeta che sapeva citare a memoria una canzone dei Beatles piuttosto che un versetto del Vangelo. E non pare che oggi le percentuali si siano di molto invertite.
Eppure, il bisogno di un dove in questa terra del nulla oggi si fa ancora più grave. E il cristianesimo, per i giovani che hanno avuto la fortuna di riscoprirlo come esperienza di vita, si è palesato proprio come questo luogo che dona consistenza alla vita. Perché una cosa è certa, da questa terra inesistente non si esce solo con i propri ragionamenti o con i soli buoni sentimenti. Occorre tendere la mano verso qualcun Altro che si faccia incontro, con simpatia, alla nostra vita. Ed è proprio questa la parte più sorprendentemente profonda e bella della canzone composta da John, 55 anni fa dopo una notte inutile.
Nowhere man don’t worry / Take your time, don’t hurry / Leave it all ’til somebody else / Lends you a hand
“Nowhere man, niente paura, prendi il tuo tempo, non affrettarti, lascia perdere tutto, finché qualcun altro non ti tenderà una mano”.
di Lucio Brunelli