· Città del Vaticano ·

La sconvolgente testimonianza di Farhad Bitani

Quel piccolo punto bianco

Dalla copertina del libro edito da Neri Pozza
24 novembre 2020

Bisogna avere lo stomaco forte per leggere alcuni brani del libro di Farhad Bitani L’ultimo lenzuolo bianco (Milano, Neri Pozza, 2020, pagine 207, euro 17). Ma ne vale la pena. Basta stringere i denti quando ci sono le descrizioni delle più efferate violenze perpetrate dai talebani in Afghanistan per poi andare oltre e calarsi in un racconto di vita che ha molto da insegnare.

Nato a Kabul nel 1986, Bitani ha vissuto varie fasi delle alterne realtà afgane degli ultimi decenni. Da privilegiato figlio di un potente esponente dei mujaheddin a povero e minacciato bersaglio dei talebani, poi nuovamente a ricco e viziato rampollo della diplomazia afgana in Italia. Ma oltre al percorso di Bitani è la meta cui arriva, a rendere affascinante ed edificante la sua autobiografia. Oggi, a 34 anni, è promotore di dialogo interreligioso e di pace globale, fondatore di Gaf (Global Afghan Forum), un’associazione non governativa e apolitica che opera a ombrello per coordinare e aiutare le organizzazioni giovanili in Afghanistan.

Chiuso al resto del mondo, l’Afghanistan si è tristemente imposto all’attenzione internazionale dopo l’attacco alle torri gemelle di New York nel 2001. Ma già all’epoca era una nazione lacerata da decenni di guerre e di invasioni. Un territorio ruvido e in parte impervio, ma anche ricco di fertili pianure, ha attratto conquistatori spietati dai tempi di Alessandro Magno e Gengis Khan, per arrivare nell’Ottocento nel mirino dell’impero britannico della regina Vittoria. Brevi periodi di calma e di stabilità sociale ed economica sono velocemente passati senza lasciare grandi tracce in quella terra che, crocevia di commerci tra Asia ed Europa, faceva gola a molti. Tanto che, com’è noto, nel dicembre del 1979 l’Armata Russa entrò a Kabul con carri armati e kalashnikov puntati contro una popolazione che non poteva far altro che sottomettersi al nuovo, violento invasore.

Gli appassionati di letteratura contemporanea andranno sicuramente con la memoria ai romanzi che ci hanno raccontato questo mondo pieno di contraddizioni, di dolore e di resilienza. Vengono in mente i romanzi di Khaled Housseini, e in particolare il suo Cacciatore di aquiloni, o alle donne il cui cuore non può essere silenziato dal burqa in La moglie dello straniero di Gwen Florio. Ma L’ultimo lenzuolo bianco di Farhad Bitani non è letteratura nel senso stretto del termine, non lo leggiamo per il piacere estetico della finzione romanzesca, seppur capace di aprirci finestre su mondi sconosciuti. Qui la finestra spalancata è sulla vita vera di un bambino cresciuto tra le armi, che ha la forza di diventare un uomo di pace, di tolleranza e di convivenza tra popoli e religioni. E le finestre sono quelle che il piccolo Farhad descrive, con i vetri rotti e rattoppate con la plastica, attraverso cui la notte gelida della Kabul della sua infanzia portava gli spettri delle vittime dei talebani. Mani tagliate, donne lapidate, e altre torture troppo agghiaccianti per essere citate.

Eppure, quel bambino subisce il fascino delle armi. Le brama, le sfiora quando i grandi le lasciano a terra per i loro incontri conviviali, le prende in mano da adolescente per sentirsi forte e uguale agli altri. Sarà nel momento cruciale, in cui deve uccidere un talebano, che Farhad non riuscirà a premere il grilletto.

Lo sguardo della madre, che lo ha sempre raccomandato di proteggere «il piccolo punto bianco» nel suo cuore, insieme agli insegnamenti di un vecchio saggio che lui chiama «il nonno», agiscono in lui e lo fanno ricredere. Non spara, rifiuta la violenza e inizia un percorso che lo porterà a contrastare quel conformismo sociale che lo aveva pericolosamente avvicinato alla disumanità che regnava in quei luoghi cambiando solo nome di epoca in epoca.

Ciò che fa Bitani in questo libro è un racconto in presa diretta di un mondo costantemente al centro delle più scottanti questioni geopolitiche di questi anni, raccontandone le ferite e anche, in qualche modo, la possibile uscita dal tunnel. Lo fa denunciando le ipocrisie dei potenti di turno, che tartassavano la povera gente inerme imponendo un integralismo disumano, ma vivendo, in privato e spesso all’estero, nel lusso e in una totale libertà di costumi che a volte rasentava la dissolutezza. Se oggi quella terra sembra poter sperare in un futuro migliore, lo deve anche a uomini come Farhad.

Durante il dominio talebano, in Afghanistan «era come vivere in uno zoo con le bestie selvagge libere e pronte ad azzannarti», il senso di pericolo, di minaccia e di assoluta precarietà della vita umana lo si respirava 24 ore su 24. Ma la capacità di resistere e di pensare con la propria testa, la capacità di decidere un futuro diverso per sé è il primo passo per cercare un futuro diverso per un intero popolo.

di Alessandro Clericuzio