· Città del Vaticano ·

Il tema del desiderio e della solitudine in Cesare Pavese

Un Orfeo sceso nell’Ade per trovare se stesso

Cesare Pavese durante la premiazione dello Strega
01 ottobre 2020

Immaginate un ragazzo di 15 anni e mezzo, che una sera di primavera alza gli occhi verso il cielo e scrive: «Infinito stellato, tu, la notte alla mente / che ti sta ansiosa dici che sei il mistero; / il giorno efimero ti nasconde allo sguardo, / il giorno che è nulla nell’immenso tuo, / il giorno che è tutta la vita dell’uomo. / Infinito oscuro, stellato, / solo al tuo silenzio comprende l’uomo / che tra un’eternità tu gli sarai ancora un mistero, / sempre un mistero».

Era quasi un secolo fa, il mondo era molto diverso dal nostro, eppure quell’ansia del mistero si affacciava notturna e silenziosa, inconfessabile tra le chiacchiere e la frenesia del giorno. Doveva apparire insolita anche ai suoi amici liceali, che durante il primo fascismo vivevano già di fervori culturali e politici, oltre che mondani. Troppo poco per Cesare Pavese, diciotto anni e un mistero che lo inquieta sia fuori sia dentro: «Le ho sofferte ancor troppo poco le donne. (Sempre da lontano, però, sempre da lontano!) Pensa che starei al supplizio della corda pur di conoscerne una da vicino. Non mica il corpo. Ci son le statue greche e le puttane per quello. Ma l’anima, l’anima, un po’ d’anima che mi dica che non è vero che io sia un nulla nel mondo, ma che valgo un affetto, un po’ d’interessamento almeno. Macché! Mi si risponde che non so ballare e che non ho maniere. Cerco questo io forse, perdio? Basta, piantiamola lì» (a Giorgio Curti, 6 ottobre 1926).

Dove trovarla, mentre tutti ballano, un’anima capace di non farci sentire nulla? Ebbe anche lui le sue avventure, che però, anziché esaltarlo, come succede a chi chiede poco, gli lasciavano l’amaro in bocca: «Tu sei per me una creatura triste, / un fiore labile di poesia, / che, nell’istante stesso che lo godo / e tento inebriarmene, / sento fuggire lontano / tanto lontano, / per la miseria dell’anima mia, / la mia miseria triste. / Quando ti stringo pazzamente al cuore / e ti suggo la bocca, / a lungo, senza posa, / sono triste, bambina, / perché sento il mio cuore tanto stanco / di amarti così male» (Tu sei per me una creatura triste).

L’amore, quando arrivava, finiva per deludere: «Mi sei venuta accanto / colla promessa viva di un’aurora, / sconvolgendomi il sangue / come un grande tesoro / che si potrà conoscere / e possedere fino a sazietà. / Racchiudevi un mistero di dolore / e di gioia profonda, sconosciuta». La promessa rimaneva strozzata in gola: «E da quel giorno buio / dinanzi al tuo ricordo / per tutta l’esistenza / dovrò soffrire ancora / la febbre del mistero che ho perduto» (Per tutta l’esistenza).

Aspettava con l’ostinazione che Francesco De Gregori fotografò in una strofa di Alice: «E Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina, e rimane lì a bagnarsi ancora un po’ e il tram di mezzanotte se ne va». Chiunque si sarebbe rassegnato prima, avrebbe intuito saggiamente che certi appuntamenti non possono che andare in buca. Non vale solo per una ballerina: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?» (Il mestiere di vivere, 27 novembre 1945).

Eppure quello che aspettiamo non arriva: «In nessun luogo trovo più una pietra / dove posare il capo. / Tutte le cose mi hanno presa l’anima, / l’hanno accesa e sconvolta, / e poi lasciata stanca / a mordere se stessa. / Vertiginosamente / mi han bruciato negli occhi / visioni di infiniti paradisi / posti tanto lontano, / ma appena vi giungevo / erano cose vane, / piene di tanto tedio e tanto orribili / che dovevo fuggire. / E la mia anima stanca / tornava a divorarsi / di desiderio feroce». Vent’anni: come si saranno sentiti i suoi amici accanto a un’insoddisfazione così incolmabile? Quell’anima era, come quella del suo Orfeo nei successivi Dialoghi con Leucò, «inconsolabile»: «Insaziabile anima / che mi trascini sempre più lontano / e ogni passo è una nausea più grande» (In nessun luogo trovo più una pietra).

La delusione, infatti, trascina con sé la nausea, dal momento che, camminando «per le vie affollate», «tutti intorno ci urtano», ma non ci conoscono: «alle lacrime, il mondo non risponde / e, se infuriamo, siamo una pietà» (La nausea da bordello). Meglio nascondere le lacrime in un diario, tanto nessuno offre risposte, e nemmeno condivide le domande. «È strano, poi ci si vede e ognuno fa la sua vita con indifferenza dell’altro. Una da solo pensa: stare insieme, parlare adagio, camminando, di cose insolite perché non si osano dire sempre, costruirsi colle parole un’ora di paradiso saggio, colla vicinanza della persona corporale dell’altro (...). Ci si vede e tutto questo scompare» (a Tullio Pinelli, 30 maggio 1929). Sarà sempre così, fino all’ultima pagina del Mestiere di vivere: «Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?» (17 agosto 1950).

Insopportabile questa estraneità continua, questo assurdo urtarci fra di noi: genera «il disgusto — non lo nausea di questo o di quello, di una serata o di una stagione, ma lo schifo di vivere, di tutto e di tutti, del tempo che va così presto eppure non passa mai» (Tra donne sole, XIV).

Il fastidio di trovarsi in mezzo agli altri e scoprirsi soli: «Pensavo invece, rientrando la sera, ai discorsi che avevo fatto con tutti ma a nessuno avevo detto ch’ero solo come un cane» (Il compagno). «Che cosa importa di vivere con gli altri, quando di tutte le cose veramente importanti per ciascuno ciascun altro s’infischia?» (Il mestiere di vivere 25 dicembre 37). «Vivere tra la gente è sentirsi foglia sbattuta. Viene il bisogno d’isolarsi, di sfuggire al determinismo di tutte quelle palle da biliardo» (ibidem 13 gennaio 1949).

Non basta stare con gli altri, anzi proprio lì esplode il problema: «Scambiamo simboli e parole, scambiamo percosse, ci tendiamo la mano, ci asciughiamo a vicenda il sudore, ma alla fine del giorno, spossati, ci accorgiamo che con noi non c’è nessuno. Eppure sappiamo che tutta la nostra fatica aveva quest’unico scopo di non lasciarci a mani vuote. Si può accettare questo?» (La selva). Contraddizione insanabile: siamo insieme, non ci tocchiamo mai. Guai, del resto, a non avvertire questo muro: cosa saremmo se ci sentissimo in pace, «se svanisse il mistero, se la notte non fossimo soli»? «Saremmo più morti dei morti. Ignoreremmo di volere qualcosa. Ignoreremmo che il prossimo — la città la donna — essendo soltanto mistero, attende da noi la percossa e la mano, attende di essere svegliato e tormentato, messo di fronte al suo dolore e al suo mistero».

Chiamerà Lavorare stanca la poesia in cui implora una donna di costruire insieme una casa: «Ci sono d’estate / pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese / sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge / per un viale d’inutili piante, si ferma. / Val la pena esser solo, per essere sempre più solo? / Solamente girarle, le piazze e le strade / sono vuote. Bisogna fermare una donna / e parlarle e deciderla a vivere insieme. / Altrimenti, uno parla da solo». Tremendo, diretto: «Se fossero in due, / anche andando per strada, la casa sarebbe / dove c’è quella donna e varrebbe la pena». Vale la pena vivere? È la sua grande domanda, o meglio — come scriveva Albert Camus aprendo Il mito di Sisifo — «vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia».

Vale la pena? Da soli no. Dev’esserci qualcuno per cui alzarsi al mattino e ricominciare: «Ci sarà certamente quella donna per strada / che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa» (Lavorare stanca). Pavese ne era certo. Altrimenti, «se si è soli, non c’è chi: anche l’io se ne scompare» (Il mestiere di vivere 25 novembre 1937). Perciò andò sempre verso gli altri: «La solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e “donando” invece di “ricevere”». Così rimproverava il 30 maggio 1943 Fernanda Pivano: «Fin che uno dice “sono solo”, sono “estraneo e sconosciuto”, “sento il gelo”, starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto».

Ma non ci si può accomodare neanche nel matrimonio, nella vita facile e in niente del genere: «After all neither marriage nor easy living nor anything of that sort can suffice» (a Doris Dowling, 19 luglio 1950). Accadono istanti meravigliosi, mitici, «ma gli istanti mortali non sono una vita. Se io volessi ripeterli perderebbero il fiore. Torna sempre il fastidio» (Le Muse). Si è portato addosso questo strazio lungo tutta la sua strada, fin da quando, mentre da ragazzo mangiava il gelato, si chiedeva “quanto durerà?” (19 lulgio 1950). Non accadeva lo stesso dalla notte dei tempi? Iacinto e Apollo «per sei giorni» pare si siano amati, ma poi — per una «legge fatale» — al dio «venne voglia di andarsene», e allora non per «disgrazia» ma per «capriccio» uccise il ragazzo. Sì, ma «quell’ansiosa speranza che fu il suo morire fu pure il suo nascere», fu comunque una bella esperienza. «Eros. Che altro vorresti, Tànatos, per lui? Tànatos. Che il Radioso lo piangesse come noi. Eros. Tu chiedi troppo, Tànatos» (Il fiore).

Pavese ha chiesto troppo (ed è l’unica cosa che vale la pena chiedere: solo quel che è inafferrabile merita di essere rincorso e pianto): cercava addirittura un dio capace di piangere per l’uomo. Viveva il tormentoso dilemma di un’anima sensibile in un mondo che procede ad altezze più basse: «O tornerò cristiano fervente o mi ammazzerò o diventerò matto o mi adatterò alla vitaccia: questo è il continuo balletto che suonano le mie idee» (a Giorgio Curti, 22 ottobre 1926). I suoi coetanei erano qualcosa di più che bravi ragazzi: sarebbero diventati filosofi, editori, artisti. Lui scriveva, e non soltanto per coltivare una passione.

A vent’anni con il suo professore fu, come sempre, netto: «Scribacchio, vomito poesie, per avere un terreno, un punto su cui fermarmi e dire “Sono io”. Per provare a me stesso di non essere nulla» (ad Augusto Monti, 23.8.28).

Stava finendo il liceo, e sapeva su quale strada incamminarsi per cercare se stesso. È l’unica cosa che si insegue sempre, come farà ammettere, qualche anno dopo, al suo Orfeo disceso nell’Ade per riacciuffare Euridice: in realtà «ho cercato me stesso. Non si cerca che questo» (L’inconsolabile). In fondo al cuore di quel diciottenne la ricerca era una sola: «L’unico appoggio che mi resta al mondo è la speranza che io valga, o varrò, qualcosa colla penna» (a Mario Sturani, 10 maggio 1926). Era così che non voleva perdersi: scrivendo. Immaginiamo, appunto, questo ragazzo che sta per maturarsi, e che vuole diventare uno scrittore, immaginiamone le incertezze sul futuro. E poi spostiamoci di ventiquattro anni, dai diciotto ai quarantadue. Cesare, ce l’hai fatta. Ricordi i tuoi sogni da ragazzo? Ora hai tradotto Moby Dick e David Copperfield, hai messo su la casa editrice Einaudi, hai scritto poesie, dialoghi, La casa in collina, La luna e i falò... «In fondo, tu scrivi per essere come morto, per parlare da fuori del tempo, per farti a tutti un ricordo. Questo per gli altri, ma per te? Essere ricordo, molti ricordi, ti basta? Essere Paesi tuoi, Lav. stanca, il Compagno, i Dialoghi, il Gallo?» (Il mestiere di vivere 10 aprile 1949).

Non basta neanche quello che facciamo. Tant’è che alla fine Pavese vince il Premio Strega: «A Roma, apoteosi. E con questo?» (ibidem 24 luglio 1950). Ma cosa può farsene? L’aveva sempre sospettato: «C’è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti» (ibidem 18 dicembre 1937). Ora lo sa ancora di più: «Nel mio mestiere dunque sono re. In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora. Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente» (ibidem 17 agosto 1950). Pavese fu uno scrittore riuscito. Ma «che giova a uno conquistare tutto il mondo se poi perde se stesso?» (La selva).

Intorno, oggi come allora, una folla di gente preoccupata di arrivare, di apparire, che lotta per un particolare esaltato a totalità. E come può sentirsi di casa in questo mondo chi si accorge che tutto sfiorisce? Quando, a marzo del 1950, entrò nella sua vita Connie Dowling, il buio si illuminò: «sei la vita, il risveglio», «è finita la notte. / Sei la luce e il mattino» (In the morning you always come back). «Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età? Non mi succedeva diverso a 25 anni. Eppure ho un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza» (scrive nel diario il 9 marzo 1950). Basterà? Lei schiarisce il buio: «acqua chiara», «cielo chiaro» (Hai un sangue, un respiro).

La vita ricomincia, la speranza si riaccende, la sua sola presenza gli cambia il cuore e gli rinnova la terra. Ma evidentemente «in lei non c’è soltanto lei» (26 aprile 1950): lei che a un certo punto va via, lei che non risponde più.

Nel tempo si è aggravata una percezione: «a ventott’anni», confessa in una lettera pochi giorni prima del suicidio, «ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso — la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori» (agosto 1950). Senza di lei la vita diventa, shakespearianamente, come una storia raccontata da un idiota: «Torino without you is like a tole told by an idiot» (a Doris Dowling, 19 luglio 1950). E in una storia assurda non si può vivere.

Per questo si parla, per questo si scrive: «La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto — la religione — consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico. L’opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri». Per questo si aspetta sotto la pioggia qualcuno che non verrà: «Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri» (15 maggio 1939).

Senza, la vita è semplicemente una prigione insopportabile. Si smette di scrivere: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più» (18 agosto 1950). Si va via da una vita che dovrà pur essere bellissima: «Tanto bella sarebbe Torino — poterla godere — / solamente poter respirare. Le piazze e le strade / han lo stesso profumo di tiepido sole / che c’è qui tra le piante. Ritorni al paese. / Ma Torino è il più bello di tutti i paesi. / Se trovassi un amico quest’oggi, starei sempre qui» (Estate di San Martino).

Questo cercava, questo cerchiamo. Se si rimane qui, non è per tenersi stretto «il pane né il piacere né la cara salute» (Gli dèi), ma per trovare un amico che non sia «un passatempo, la variante del cinema» (MV, 4 marzo 1947), e che invece ci rimetta di fronte al nostro dolore e al nostro mistero, che sappia legarsi con noi «per tutta la vita (rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione)» (MV 11 giugno 1938); per il fioco chiarore di una stella che resiste alla notte e ci trova qui svegli all’«alba di un giorno / in cui nulla accadrà» (Lo steddazzu, 1936): «O luce, / chiarezza lontana, respiro / affannoso, rivolgi gli occhi / immobili e chiari su noi. / È buio il mattino che passa / senza la luce dei tuoi occhi» (I mattini passano chiari, 1950).

Nell’agosto di settant’anni fa, fissando gli occhi nel buio e implorando una «chiarezza lontana», ci ha chiesto perdono, con le sue ultime parole, supplicandoci di non fare «troppi pettegolezzi». Non ne faremo. Nemmeno quelli camuffati da serietà, di chi appiccica sentenze alla disperazione: «non mi piace affatto che altri raccolga i miei lamenti e me li rifrigga in una salsa di buon senso da uomo posato che capisce la vita e ci ha sopra il suo bravo sistema, ereditario, ma sempre sistema» (a Tullio Pinelli, 18 agosto 1927). Ne avrà sentite abbastanza: «Così, ecco, mi pareva gran cosa il mio dolore e l’altro non dava indizio quasi di aver inteso, appiccicando candidamente alle mie parole disperate una sentenza» (Lotte di giovani). Non lo merita. «Che altro vorresti» per lui? Che qualcuno «lo piangesse». Chiedo troppo?

di Valerio Capasa