· Città del Vaticano ·

«Anatomia di un profeta» di Demetrio Paolin

Geremia e l’abisso

Michelangelo «Il profeta Geremia » (1512)
29 ottobre 2020

Ci sono libri che manifestano quasi plasticamente chi ne è autore. Vi sono autori che si rispecchiano così carnalmente nei propri libri al punto che, quando li leggiamo, sembra di averli davanti a noi in carne e ossa. Qualcosa del genere lo percepisce il lettore quando si immerge in Anatomia di un profeta (Roma, Voland, 2020, pagine 256, euro 17), l’ultimo testo di Demetrio Paolin, scrittore e critico letterario (ha studiato molto Primo Levi), già noto per il suo precedente Conforme alla gloria che fu tra i dodici finalisti del Premio Strega.

Perché occuparsi qui di un testo che, per affermazione stessa dell’autore, è e al contempo non è un romanzo? Ma neppure un saggio su un profeta biblico — Geremia, visto attraverso sia il libro omonimo sia mediante il ricorso al libro delle Lamentazioni —: proprio la parola anatomia restituisce il senso dell’operazione letteraria di Paolin. Il quale intreccia continuamente la sua personalissima rilettura di Geremia (profeta ostico, in cui speranza e disperazione, affidamento e delusione si intrecciano in un contrappunto teologico drammatico e spiazzante) con un fatto di vita da lui vissuto in prima persona: aver conosciuto un ragazzino, di origine polacca, residente come l’autore nel Monferrato, Patrick il suo nome, rimasto ucciso dopo aver ingoiato del diserbante. Morte tragica o proto-suicidio (tema, quest’ultimo, che Paolin scandaglia con chirurgica competenza), non è dato di sapere.

Il libro si snoda dunque su questo doppio binario: la lettura del riferimento biblico e la rilettura di quel fatto di cronaca così apocalittico, la morte (l’auto-morte?) di un bambino. Questione che per un credente come Paolin non può non chiamare in causa le grandi domande della teodicea, della teologia, della letteratura, da Dostoevskij in giù. Detto en passant: ci vuole coraggio, e parecchio, editorialmente parlando per una casa editrice, narrativamente per un autore, scrivere e pubblicare oggi, in un’Italia in cui l’analfabetismo religiosa galoppa a spron battuto, un libro che tratta la vicenda biblica di un profeta.

Spia, questa, insieme ad altri barlumi presenti nell’editoria italiana di oggi, di qualcosa di significativo sul fronte cultura/Bibbia, una ripresa di interesse che va registrata: vedi la collana della milanese NN dedicata alla riscrittura di personaggi ed episodi biblici, curata da Alessandro Zaccuri; oppure l’iniziativa di Piemme di affidare, sotto la regia di Arnoldo Mosca Mondadori, a intellettuali di varia estrazione (credenti e non credenti), una loro personale introduzione a testi biblici. Finora sono stati dati alle stampa Giona, per la penna introduttiva di Benedetta Tobagi, Apocalisse, curata dal compianto Giulio Giorello; Salmi, anche qui chi li ha introdotti (Ennio Morricone) ci ha appena lasciati; e il Cantico dei cantici con Salvatore Veca.

Ma torniamo a Paolin e al suo ostico ma affascinante libro su Geremia. Attraversa tutto il lavoro uno scavo dell’autore che vuole condurre il lettore di fronte alla drammaticità dell’atto di fede e del dialogo di Dio con il mondo e con l’uomo, fuori da una visione sdolcinata della storia della salvezza e dell’atto stesso di affidarsi a un Assoluto. Di fronte alla domanda divina «Quale ingiustizia hanno trovato in me i vostri padri / per allontanarsi da me?», Demetrio chiosa: «In questo caso il personaggio, Dio stesso, ci colpisce ancora di più. Jahwè non annuncia punizioni, giustizia da somministrare, ma si affaccia sulla scena e sulla storia concreta di ognuno di noi con una domanda piena di terrore. Il Dio vivente di cui cerchiamo di dire qualcosa è angosciato».

Anche altrove Paolin, anche grazie al suo incedere narrativo post-moderno, nel quale si vede forte l’influsso dello scrittore David Foster Wallace (guarda caso, pure lui morto suicida), ci restituisce uno sguardo sulla vicenda biblica di Geremia scarnificante nella sua indomita proposta di radicalità spirituale. Ad esempio, sulla vexata questio del male: «Se tu, Dio, mi chiedi perché il male? io ti rispondo perché esiste la libertà. (...) La tua kenosis non è così dissimile. Io ti vedo mentre ti getti dall’alto dei cieli, e diventi uomo, anche tu votato alla morte. Anche tu hai scelto l’abisso della libertà, anche tu ha scelto di farti peccato per salvare me e gli altri».

Proprio il tema della libertà ritorna spesso come un fil rouge nel testo: «Dio è fragile (cristallino ma distruttibile) e bisognoso che qualcuno rinunci alla propria libertà. La libertà è il nostro abisso, ciò che ci rende umani: rinunciare alla nostra umanità ci rende difformi, mostruosi, dei perfetti impostori per Dio». Proprio questa, alla fine, è la cifra che Paolin riconosce a Geremia, profeta e libro: quello della richiesta di un salto nella libertà nei confronti di Dio: «Più leggo e riscrivo Geremia, più mi gira nella testa una singola parola che forse potrebbe spigare il contenuto del libro del profeta. Questa parola è abisso. Il libro di Geremia è abissale e forse per questo motivo ognuno può vedersi riflesso, ma è anche una sorta di tenia che si divora dentro e pretende dall’uomo che legge le sue parole molto di più di quanto esse dicano. Geremia ci invita alla caduta, a saltare senza rassicurazione di sorta, senza nessuna possibilità di avere la minima prova che alla fine ci sarà la salvezza».

In questo processo di libertà Paolin incontra la libertà kenotica del Dio cristiano che sceglie di passare attraverso il buio della morte per far capire all’uomo quanto gli sta a cuore la sua vita: «C’è qualcosa di sconcio nella morte, una sensazione che si acuisce quando a morire è un bambino di undici anni nel modo in cui è morto Patrick. Eppure Dio in questa morte dimostra tutta la sua grandezza e tutta la piccolezza delle nostre menti: Dio è vicino a Patrick perché ha vissuto con lui la sua morte, Dio rivive la sua morte ogni volta che qualcuno muore».

Questa disamina della fine, umana e divina assieme, non getta però Paolin in un’apatica (e atea) disperazione: salvezza e vita hanno ancora la meglio: «Nessuno con cui parlo, a cui accenno di questa mia fede, di questo mio credere che ritorneremo in vita, prende sul serio la resurrezione. Vengo deriso, mi viene chiesto se il corpo che risorgerà sarà proprio il mio, come sarà. Penso che queste domande ironiche nascondano una paura semplice: attraversare la morte. La salvezza passa dal morire, dal venire meno della nostra vita, bisogna attraversare l’ignominia del non essere più».

di Lorenzo Fazzini