Per il grande pubblico, il Ghetto di Varsavia evoca la coraggiosa insurrezione degli ebrei, nell’aprile del 1943, contro le truppe naziste, la battaglia che bloccò per quattro settimane le colonne armate di Hitler e umiliò il regime, prima che arrivasse — inevitabile — la sconfitta e l’annientamento totale della comunità ebraica. In una recente ricerca condotta da un collettivo di accademici statunitensi, cinesi e di altre nazionalità, si è però scoperto che dal Ghetto di Varsavia giunge un’altra lezione, illuminante in tempi di pandemia.
Nell’autunno del 1941, i 450 mila ebrei, imprigionati dai nazisti nel Ghetto della capitale polacca, si trovavano in una catastrofe sanitaria. In primavera era scoppiata una epidemia di tifo, che aveva già provocato 80 mila infetti e migliaia di morti. Il contagio — secondo alcune fonti storiche — era stato innescato coscientemente dai medici nazisti su ordine del generale e comandante delle SS, Reinhard Heydrich, per eliminare senza sporcarsi troppo le mani la popolazione ebraica del Ghetto, con un combinato di tifo e carestia.
Ogni ebreo aveva diritto ad una razione di cibo per 200 calorie al giorno contro le oltre 2.000 che spettavano ai militari tedeschi occupanti. Con l’arrivo della stagione fredda era prevista un’impennata di casi. Secondo i calcoli matematici elaborati nello studio internazionale pubblicato in luglio dalla rivista «Journal Science Advances», i morti sarebbero dovuti schizzare a 200 mila, sulla base della velocità di diffusione del batterio, della mancanza di cibo, del sovraffollamento. Misteriosamente però ciò non avvenne. I contagi calarono e la malattia arretrò. Come fu possibile? Gli accademici ritengono che i prigionieri riuscirono a sconfiggere l’epidemia grazie alle proprie forze, alla capacità di organizzazione, di resistenza, al senso di comunità e di responsabilità. Le condizioni erano estreme anche dal punto di vista igienico.
Il ghetto, un’area degradata di appena 3,5 chilometri quadrati, era il luogo ideale dove l’epidemia potesse fare strage. Mura alte tre metri e sovrastate da filo spinato impedivano a chiunque di fuggire. Mancava persino lo spazio per seppellire i morti che rimanevano talvolta ad imputridire nei vicoli, ricoperti da carta di vecchi giornali.
Tra i prigionieri vi erano però anche 800 medici ebrei, tra cui professionisti eccellenti, e migliaia di infermieri. Decisero di organizzarsi in un Comitato sanitario. Cominciarono a tenere lezioni strada per strada, insegnando alla popolazione regole di medicina preventiva, indicazioni su come sanificare la case, mantenere il distanziamento e rispettare nozioni basilari di igiene e di isolamento.
Fu creata un’università clandestina, dove gli studenti di medicina poterono specializzarsi a tempi di record per affrontare l’emergenza. Si aprirono mense e dispensari comuni per distribuire il più efficacemente possibile il cibo e i medicinali che arrivavano per canali clandestini o riutilizzando le tessere di persone morte. Il tifo alla fine scomparve.
Fu tuttavia una vittoria breve ed effimera, di cui probabilmente i protagonisti nemmeno si accorsero. Nel gennaio 1942, Hitler diede infatti il via alla “soluzione finale” ovvero allo sterminio pianificato di tutti gli ebrei in Europa.
«Quella del Ghetto di Varsavia è una delle più grandi storie mediche di tutti i tempi — scrive Howard Markel, docente di medicina e di storia della medicina all’Università del Michigan, membro del team di ricercatori —. Oggi di fronte alla pandemia di coronavirus, dovremmo tutti prendere ispirazione dal coraggio, l’audacia e l’unità dei medici, degli infermieri, dei pazienti del ghetto. Si tratta di comportarsi come si comportarono loro in condizioni così drammatiche e disperate».
di Elisa Pinna