· Città del Vaticano ·

Suggestioni letterarie per il rifiuto della pena capitale

Una finestra sulla vendetta istituzionale

Francisco Goya, «Il 3 maggio 1808» (1814)
10 settembre 2020

Chi scrive di pena di morte prende spunto da fatti di cronaca, da dibattiti, moratorie, esecuzioni ingiustificate. Oppure, più semplicemente, ripercorre la storia della lugubre sanzione raccontando dove e come è stata applicata nei secoli, aggiornando il lettore sullo stato dell’arte. Nella saggistica a tema è invece più difficile trovare pubblicazioni che hanno affrontato la questione prendendo in esame una lista di autori che hanno segnato la storia della letteratura mondiale. Lo ha fatto, con risultati sorprendenti, Antonio Salvati con il suo ultimo libro La penna e La forca. Scrittori e pena di morte. Suggestioni letterarie per il rifiuto della pena capitale (Roma, Intrecci, 2020, pagine 388, euro 25) cimentandosi con Shakespeare, Sciascia, passando per Parini e Manzoni fino ad arrivare a Idanna Pucci. Ma non parlategli di analisi letteraria del rapporto fra pena di morte e letteratura. «La finalità di questo volume è effettuare una sorta di ricognizione, seppur il più possibile criticamente orientata, di posizioni sulla pena di morte espresse da letterati di un certo rilievo e non, soprattutto dagli inizi dell’Ottocento ai giorni nostri» ci spiega l’autore che ha ricevuto il sigillo di monsignor Vincenzo Paglia.

Nel presentarlo il presidente della Pontificia Accademia per la vita scrive: «Questa pubblicazione può legittimamente costituire un serio contributo nella fondazione di una più profonda cultura della giustizia e del perdono». In effetti il volume è insieme un’inchiesta, un saggio, ma soprattutto un appello appassionato contro la pena di morte che, prendendo in prestito Cesare Beccaria, «non è un diritto, ma la guerra di una nazione contro un individuo».

Quello di Salvati è un giro nel mondo della letteratura in cui le esecuzioni capitali accomunano, più o meno, tanti scrittori. «Potremmo dire che sviluppano quella naturale attitudine a considerare la scrittura un metodo di indagine sull’uomo, inteso come unità misteriosa su cui è impossibile mettere un punto definitivo», sostiene. La forza di questo libro è che non ristagna nel recinto delle idee astratte, ma ci porta, attraverso i protagonisti presi in esame, nel mondo concreto dell’abiezione, della negazione dell’essere umano: apre la finestra sulla vendetta istituzionale, che scaturisce da una spinta basata su impotenza, rabbia in reazione alla criminalità.

«Il rapporto tra sistema penale e letteratura è indubbiamente ricco e articolato. Numerosi scrittori, poeti e letterati, hanno toccato i temi del diritto e della pena di morte» rivela Salvati. «Se analizziamo con uno sguardo complessivo questi scritti, vediamo che tutti gli autori considerati assumono, verso la pena, verso la legge penale, verso le istituzioni giuridiche, un atteggiamento quanto meno critico: un approccio che va da forme di diffidenza, di scetticismo, di critica moderata in vista di una riforma, a modalità più decise di condanna radicale» aggiunge l’autore, arrivando a indicare nuove vie anche per chi decide. Ovviamente tutte ispirate alla letteratura. «Queste preoccupazioni, che stanno al fondo del pensiero di tutti gli autori trattati, ci mostrano che i giuristi possono avere spesso da imparare dai letterati: l’insegnamento che molti scrittori possono dare ai giuristi consiste nell’indicazione che troppo spesso le istituzioni giuridiche (e di riflesso l’opinione pubblica nel suo complesso) ottengono il risultato opposto a quello che si prefiggono, che la difesa della certezza del diritto e della dignità dell’uomo deve essere oggetto di una continua e gelosa attenzione, e che è cosa assai difficile costruire il diritto, soprattutto il diritto penale, in modo che sia realmente a misura dell’uomo».

In effetti, in passato (e in molti casi anche oggi), i governi su basi demagogiche hanno ceduto alla spinta popolare, soluzione più facile per risolvere il problema di un corretto funzionamento del sistema giudiziario d’ordine pubblico e carcerario. Inoltre la maggior diffusione della pena di morte e l’ampliamento della casistica hanno aperto la via agli abusi legalizzando atrocità. Assodata statisticamente la non deterrenza della pena di morte, una pena minore giusta e costante è più incisiva di una grossa pena una tantum. «Questa antologia vuole essere anche un’espressione di gratitudine e di memoria per i tanti scrittori e poeti che all’interno della storia dell’uomo hanno condotto una lotta incessante per far prevalere il diritto sull’abuso, le regole della libertà sulle tante tirannie» riprende Salvati. E dal suo essere insegnante, pesca la motivazione più profonda che lo ha condotto a questa ricerca: «Più volte ai miei allievi, durante l’erogazione della didattica a distanza, ho detto che non bisogna intendere la lettura soltanto come un’operazione educativa ed edificante. I libri non sono medicine che aiutano a diventare bravi a scuola. Occorre partire dal piacere di trovare nei libri le risposte profonde ai bisogni del cuore, pensarli come strumenti lieti, capaci di rendere più ricca e intensa la vita». Insomma, quella di Salvati è una voce coraggiosa che affronta un tema che non vogliamo conoscere. Dal suo confronto sulla pena di morte con i giganti della letteratura mondiale, ne è uscito un libro intenso, vero. Non si può leggerlo e restare indifferenti.

di Davide Dionisi