
La lenta discesa verso la cecità totale da adulto
«Man mano che passa il tempo, non mi vedo più tanto come cieco — cosa che mi farebbe apparire menomato rispetto alle persone che vedono — ma come vedente-con-tutto-il-corpo. Un cieco è semplicemente una persona la cui funzione della vista è trasferita all’intero corpo, e non più circoscritta a un organo specifico. Il fatto di vedere-con-tutto-il-corpo mi colloca in una precisa categoria di persone. È uno stato, come lo stato di chi è giovane, o vecchio, o maschio, o femmina; e insieme a essi costituisce uno degli ordini naturali dell’esistenza umana».
Il dono oscuro (Milano, Adelphi 2019, pagine 221, euro 20, traduzione di Francesco Pacifico) è l’incredibile diario in cui il teologo australiano John M. Hull (1935-2015) ripercorre la sua lenta discesa verso la cecità totale da adulto.
Cosa accade nella mente e nel cuore di una persona che dopo quarant’anni di vita da vedente si ritrova definitivamente e irreparabilmente cieca? Nel libro — che a ragione Oliver Sacks nell’introduzione definisce «un capolavoro» — Hull racconta ogni aspetto della sua nuova esistenza, e del percorso fatto per arrivarci. Dalla disperazione alla scoperta di un nuovo modo di pensare, essere e considerarsi, dalla frustrazione per le difficoltà quotidiane alla costruzione di nuovi rapporti con moglie, figli (il rapporto con ciascuno di loro — vissuto ora da vedente, ora in transizione, ora da cieco — è nato e si è sviluppato in modo differente), con amici, colleghi e semplici sconosciuti. E ancora dal rimpianto all’accettazione di una condizione nuova, sconosciuta: non c’è solo il buio (che c’è) o il rifiuto di qualsiasi forma di commiserazione, c’è l’arrivo alla capacità di collocarsi in un mondo nuovo. Ed è il dono.
Hull accompagna il lettore nella sua progressiva trasformazione innanzitutto dell’immagine di se stesso, che sbiadisce ogni giorno, seminando domande e preoccupazioni: «Fino a che punto la perdita dell’immagine del volto è collegata alla perdita dell’immagine di sé? È questa la ragione per cui spesso mi sento come se fossi solo spirito, un fantasma, un ricordo?».
Quindi cambia la rappresentazione mentale delle persone, che con il tempo hanno una fisionomia sempre meno definita. «Durante i primi anni di cecità — scrive — quando pensavo alle persone che conoscevo, finivo sempre per dividerle in due gruppi. Quelle con il volto e quelle senza volto. Era un po’ come aggirarsi per le sale della National Portrait Gallery. Ci sono file di ritratti, e poi di colpo uno spazio vuoto. Si capisce dove stava appeso il quadro dall’impronta lasciata sulla tappezzeria, e la piccola etichetta con il nome sotto».
L’interazione con il mondo passa ora per la pelle (un cieco, ad esempio, «entra con tutto se stesso nella ventosità di una giornata»), per l’udito. Pazzesco il caso della pioggia che ha «un modo tutto suo di dare un contorno a ogni cosa; getta una coperta colorata sopra cose prima invisibili (...) se solo la pioggia cadesse in una stanza, mi aiuterebbe a capire dove stanno le cose, mi darebbe la sensazione di trovarmi davvero lì, anziché di essere soltanto seduto su una sedia», mentre la neve, che fa perdere ogni riferimento acustico, è la nebbia dei ciechi.
Se non mancano momenti di difficoltà e crisi, Hull riesce però ad apprezzare il valore di ritrovarsi alle prese con una quotidianità liberata da tutto quel rumore di fondo che di solito non permette di cogliere l’essenziale. «Si comincia a vivere secondo altri interessi, sulla base di altri valori. Si comincia ad abitare un altro mondo».
Sono tanti i punti affrontati da Hull. Molto interessante, tra gli altri, il discorso sul linguaggio tarato sulle immagini visive. «Quando sei cieco ti rendi conto di quanta parte del linguaggio dipenda da immagini visive (…). La struttura stessa delle nostre conversazioni ordinarie, quotidiane, presuppone un mondo vedente. Lo si nota facilmente confrontando le conversazioni alla radio con quelle in televisione. Quando un vedente attira l’attenzione su una piccola stranezza nell’uso di una metafora vista da parte di una persona cieca, quindi, sotto si nasconde uno spostamento sottile nell’intero carattere della comunicazione tra il vedente e il cieco. Esiste un linguaggio della cecità».
O il fatto che dover imparare a essere cieco significa anche dover trovare il giusto equilibrio tra non essere emarginato e non essere sempre al centro della scena. «È molto difficile essere una persona normale quando non sei una persona normale».
Al cuore del diario, dunque, v’è l’esperienza di una persona che, oltrepassando il confine tra mondo dei vedenti e mondo dei non vedenti, vive la totale trasformazione di sé, della sua storia e delle sue relazioni, arrivando a una nuova comprensione di cosa una persona sia. È un percorso affrontato con sofferenza, ironia e socievolezza quello di Hull, e della sua famiglia (meravigliose le pagine finali scritte dalla moglie).
E se — come già detto — la cecità è uno stato, come quello di chi è giovane, vecchio, maschio o femmina, il problema è come far entrare in contatto questi stati: il tribalismo e la chiusura mentale delle persone, infatti, rendono difficile per una categoria comprenderne un’altra. «La cecità implica la dipendenza. Da qualche parte, lungo il cammino, alla fine della strada, c’è sempre qualcuno che ha gli occhi. Che lo si voglia o no, i ciechi sono deboli. Il mondo della cecità è piccolo, autentico e auto-sufficiente, eppure è circondato e contenuto in un mondo più grande, il mondo dei vedenti. Come farà il piccolo a comprendere il grande senza provare gelosia, e come farà il grande a capire il piccolo senza provare pietà?».
di Giulia Galeotti