Il genio — riconosciuto e controverso — di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) su una cosa non sbagliava. Letto d’un fiato il Vangelo secondo Matteo, trovato sul suo comodino, mentre era ospite della Cittadella di Assisi nel lontano 1962, ne restò all’istante folgorato: la potenza narrativa e discorsiva di quel breve racconto ne faceva ai suoi occhi di regista una sceneggiatura in qualche modo già predisposta per una trasposizione cinematografica. Il che Pasolini prontamente eseguirà nel giro di due anni (1964) non senza faticose approssimazioni, di volta in volta e per diversi aspetti ricalibrandone il progetto, appoggiandosi alla consulenza di don Andrea Carraro e di mons. Francesco Angelicchio — e dedicandolo infine alla memoria dell’appena scomparso Papa Giovanni (1963). Tra le perle del film, indimenticabile l’iniziale formidabile gioco di taciti sguardi tra Maria e Giuseppe — felicemente rispettoso della sobrietà narrativa del nostro evangelista —, che lungo le prime immagini del film cattura l’assorto spettatore.
Il Vangelo di Matteo — in effetti — con la bilanciata alternanza di racconti e lunghi discorsi, con il suo congegno di abbondanti citazioni scritturistiche (una cinquantina) e formule di compimento (una dozzina), con la sua efficace pedagogia di catecheta rabbinico, fatta di riprese e ripetizioni frequenti, di dialoghi e incremento di personaggi, abile tanto nella stilizzazione quanto nella drammatizzazione — costruisce un lettore ben più illuminato e saturo rispetto al sempre sconcertato e spiazzato lettore del Vangelo di Marco — da lui fagocitato in larghissima percentuale e con notevole libertà, come vuole la teoria sinottica oggi più diffusa e ragionevole. Imponente quanto chiarificante, sapientemente compattato nella sua straripante abbondanza, capace di schiudere nuovi e più profondi orizzonti sulla ecclesiologia, la spiritualità e l’etica — nonché dalla tradizione attribuito a Matteo il pubblicano (9, 9), individuato come uno dei dodici (10, 3) — si capisce come, insieme al Vangelo di Giovanni, possa essersi imposto nella storia della Chiesa almeno fino al XIX secolo, quando l’esegesi moderna si sentirà in dovere di riscattare il breve e dirompente racconto marciano e l’opera storiografica lucana, sdoganandoli da un fin troppo lungo embargo.
Ricorrendo la sua memoria liturgica — 21 settembre — un aspetto del Vangelo matteano, finora forse piuttosto disatteso, mi par meritevole di rilievo — un fenomeno, come quasi sempre nei Vangeli, al tempo stesso di stile letterario e di interesse teologico-spirituale. Esso consiste nella sua spiccata propensione a tenere costantemente viva e allertata l’attenzione del lettore, ricorrendo a un espediente piuttosto semplice, con cui il narratore intrattiene i propri lettori in qualche modo calandosi nei panni di un consumato presentatore e uomo di spettacolo. È così che, per introdurre un evento, o un personaggio, o anche un’idea degni di nota, Matteo usa interpellare il proprio pubblico ricorrendo alla risorsa più elementare di ogni umano linguaggio, dando cioè corpo consistente alla parola trasformata in un gesto ostensivo, in un dito puntato, una mano protesa a indicare qualcosa o qualcuno che va facendosi presente, per manifestarsi in bella evidenza sotto gli occhi (e all’immaginazione) di chi legge. «Signore e signori, ed ecco a voi...» — come tutti sappiamo — è la formula obbligata di tutti i conduttori di spettacoli teatrali e televisivi. Nella teoria linguistica questo atto di linguaggio che esordisce concentrandosi sulla paroletta «ecco!», viene catalogato sotto il nome di «deissi» — dal greco deixis, «mostrazione», «indicazione», «ostensione». Per il vero, si tratta di per sé di un concetto applicabile a tutte quelle parole che ci schiudono una corsia privilegiata di accesso alla realtà (referenzialità), e ci sospingono a «vedere» qualcosa o qualcuno che arriva proprio sotto i nostri occhi. Anche i pronomi personali («io, tu...») e dimostrativi («questo, quello...») rientrano in tale categoria, e vengono definiti appunto come «deittici».
Anche il linguaggio figurativo conosce il fenomeno. Nella pittura si parla infatti di «indigitazione» — André Chastel, noto storico dell’arte rinascimentale vi ha dedicato uno studio intitolato Semantica dell’indice. A propria volta, Leon Battista Alberti, nel suo trattato del 1435 si permetteva di asserire: «E piacemi [vi] sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere». Si tratta addirittura di una prassi assai comune e piuttosto nota: pensiamo soltanto al San Giovanni di Leonardo al Louvre (1508/13), con il suo dito puntato verso l’alto; alla Creazione dell’uomo di Michelangelo nella Sistina (1511); alla Vocazione di Matteo del Caravaggio (1599/1600) nella chiesa romana di San Luigi de’ Francesi — tutti appuntamenti che ci convocano a uno speciale stupore per un evento rivelativo.
Ma ritorniamo al Vangelo di Matteo.
Opportunamente i commentatori non mancano di osservare come esso — con l’ultima promessa di Gesù risorto agli undici convenuti in Galilea si concluda con una finale tutta aperta sul tempo a venire, che comporterà la loro missione universale (28, 19-20a) — un tempo che non sarà desolato, bensì quotidianamente visitato dal Signore risorto: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo!» (28, 20b). Simultaneamente però, queste parole lanciano un ponte retrospettivo, risalendo all’indietro fino agli inizi della storia di Gesù, e caratterizzandone l’intera vicenda, passata e futura, come storia di Gesù l’Emmanuele, il Dio-con-noi. In effetti, — con una inclusione maggiore che abbraccia l’intero racconto — la promessa finale di Mt 28, 20 riprende la primissima citazione di compimento del Vangelo, che illustrare la singolare generazione di Gesù già accennata nella genealogia (1, 16), poi annunciata chiaramente dall’angelo (1, 20-21) al perplesso Giuseppe (1, 19-20), e puntualmente commentata dall’evangelista: «Tutto questo è avvenuto, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”, che significa: “Dio con noi” (Is 7, 14)» (Mt 1, 22-23). Incontriamo proprio qui la prima e ultima ricorrenza di questa interiezione avverbiale — «ecco» (idoù) — che Matteo dissemina per ben 62 volte lungo il suo racconto, raccogliendo un vero e proprio primato nell’intero Nuovo Testamento (gli stanno dietro solo Lc e Ap, rispettivamente con 57 e 26 ricorrenze).
Come già l’ebraico hinneh, anche idoù in greco serve ad animare il discorso, o suscitare attenzione, introdurre una novità, rimarcare meglio un fatto o un pensiero (cfr. H. Baltz & G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, vol i. Paideia, Brescia, 1995, p. 1699). In effetti, «ecco/eccomi» è formula di potente risonanza affettiva e perfino passionale, che molto piace ai profeti d’Israele per inaugurare i loro oracoli con cui dar voce al Signore in persona, in quanto parla e agisce nella storia. In effetti — lasciando ai grammatici la discussione se si tratti di avverbio, piuttosto che d’interiezione — sta di fatto che quando esclamiamo «ecco...!», si crea una piccola sospensione giusto un attimo in attesa di quanto si dirà o avverrà, aprendo così una brevissima suspense preparatrice a quello che sta per seguire, mai scevro di qualche sorpresa.
Di questa dinamica, ben nota ai profeti, è grande esperto anche il nostro Matteo, dal momento che almeno ancora per altre tre volte mutua appunto una parola profetica applicata in termini di compimento. Lo farà per la comparsa di Giovanni il Battista come precursore: «Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”» (Mt 11, 10, che cita cumulandoli Es 23, 20; Mal 3, 1; Dn 4, 14). Ma soprattutto nelle guarigioni operate da Gesù, Matteo riconoscerà in Gesù il Servo del Signore di Is 42, 1: «egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia: “Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il mio spirito sopra di lui, e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta, non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti!” (Is 42, 1ss.)» (Mt 12, 18-21; cfr. anche Mt 8, 16-17 come compimento di Is 53, 4). Così pure, nell’ingresso a Gerusalemme, l’evangelista focalizzerà la nostra attenzione su Gesù, re-messia dei poveri del Signore, che porta a compimento la profezia di Zaccaria: «“Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma”» (Zc 9, 9 cit in Mt 21, 5).
Quella di Gesù di Nazaret — cercano di spiegarci, non solo Matteo, ma, ciascuno a modo suo proprio, tutti e quattro gli evangelisti — è una storia molto singolare, tutta ipotecata da una formidabile istanza di salvezza e di rivelazione, l’una e l’altra esuberanti e piene — ovvero, in altre parole: compiute (5.17-18; 26, 54.56). Sicché, per raccontarne questa maggior grandezza, c’è bisogno di investire, concentrare, risvegliare il massimo di attenzione possibile, corrispondente alla tensione narrativa che le è intrinseca. È la storia del Figlio amato, battezzato, trasfigurato e crocifisso, sul quale Dio per due volte fa udire la propria voce celeste (3, 17; 17, 5); e nel quale il Padre in primissima persona si coinvolge, schiudendo il proprio mondo, e costringendo la Morte in persona ad una prima, anticipata resa dei conti: «... Ed ecco, furono aperti i cieli... Ed ecco, il velo del tempio fu squarciato in due da cima a fondo,... e i sepolcri furono aperti, e molti corpi di santi, che erano morti, furono risuscitati, e uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa, e apparvero a molti» (Mt 3, 16-17; 27, 51-53). Non a caso dall’inizio (1, 20; 2, 9.13.19) alla fine (28, 2.7) a scandire la storia del Figlio, entrano in gioco gli angeli, custodi fedeli e araldi autorevoli della maggior grandezza del disegno divino rispetto ai fragili progetti e sentimenti umani.
Insomma, ogni «ecco» che incontriamo nel racconto matteano suona come un punto esclamativo anticipato, un segnale foriero di qualche sorpresa più o meno grande e significativa.
Non a caso, poi, in alta percentuale queste interiezioni funzioneranno per il narratore come una sorta di biglietto da visita o di badge per permettere di volta in volta ai sempre nuovi interlocutori di Gesù di entrare in scena — soprattutto a quanti sono in cerca di salvezza — formando una serie davvero impressionante: «Nato Gesù a Betlemme di Giudea, ecco alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme, e dicevano: “Dov’è il neonato re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo!”» (2, 1-2). «Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. Ed ecco venire un lebbroso e prostrarsi a lui, dicendo: “Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi!”» (8, 1-2). «Ed ecco [i due indemoniati] si misero a gridare: “Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?”» (8, 29 cfr. vv. 29.32). «Salito su una barca, Gesù passò all’altra riva e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto» (9, 1-2; cfr. 9, 3). «Mentre sedeva a tavola nella casa, ecco molti pubblicani e peccatori che sopraggiunti, se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli» (9, 10). E questo varrà anche per l’emorroissa (9, 20), il muto indemoniato (9, 32), l’uomo dalla mano paralizzata (12, 10), per la madre e i fratelli di Gesù (12, 46-49), la donna cananea (15, 22), il giovane ricco (19, 16), e per i due ciechi (20, 30). E anche quando saranno gli oppositori a insorgere contro Gesù, Matteo non si esimerà dall’accendere l’attenzione dei propri lettori, come nel caso dei Gadareni, che sollecitano Gesù ad andarsene dal loro territorio (8, 34); o degli scribi che lo tacciano di bestemmia (9, 3). O di quanti ancora gli rinfacciano beffardamente una convivialità troppo disinvolta e ospitale: «Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori!» (11, 19); o di quanti contestano ai suoi discepoli la violazione del sabato (12, 2); per non parlare di situazioni che riveleranno un’incomprensione del suo destino (26, 51), ovvero una contrapposizione precostituita menzognera nei suoi confronti (28, 11). È così che Matteo si accende di stupore per tutta questa umanità variamente vulnerabile, letteralmente calamitata dalla presenza dell’Emmanuele: l’avvicinabile per eccellenza («avvicinarsi» è un’altra parola chiave del nostro Vangelo). Una sola volta Matteo registra un «ecco!» sulla bocca di un discepolo, in reazione alla parola di Gesù — più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio — però, se questo è impossibile agli uomini, a Dio tutto è possibile (19, 23-26): «Allora Pietro gli rispose: “Ecco — noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?”» (19, 27).
Non farà così meraviglia che sulla bocca dello stesso Gesù risuoni questo richiamo all’attenzione con sfumature e caratteristiche diverse. Di volta in volta sarà un’istruzione condita da sapiente ironia («o come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio», mentre ecco la trave nel tuo occhio?”»: 7, 4; cfr. 11, 8). Oppure saranno più gravi parole profetiche per illustrare la missione dei discepoli («ecco, io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe!»: 10, 16), ostacolata fino alla persecuzione (cfr. 23, 34), ma che prevede la rovina dei loro stessi persecutori (23, 38). O, ancora, sarà il Gesù parabolista che insisterà a segnalare il momento cruciale del regno dei cieli avvicinato cui disporsi in vigilante accoglienza: «Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: “Ecco, il seminatore uscì a seminare...”» (13, 3). «Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto — venite alle nozze!”» (22, 4). «A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!» (25, 6).
Plausibile eco di una ipsissima vox Iesu risuonerà il rimprovero di Gesù rivolto a quanti da lui pretendono un segno («Allora alcuni scribi e farisei gli dissero: “Maestro, da te vogliamo vedere un segno!”»), e ai quali replicherà con un rimprovero pieno di tristezza: «Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. Nel giorno del giudizio, quelli di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona! Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro questa generazione e la condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone!» (12, 38-42). Sempre nell’ordine di una profezia di stampo apocalittico suonerà l’ammonizione destinata a tutelare i discepoli dal cadere nella trappola dei falsi annunci messianici: «Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui!”, oppure: “È là!”, non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l'ho predetto. Se dunque vi diranno: “Ecco, è nel deserto!”, non andateci; “Ecco, è in casa!” — non credeteci! Infatti, come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (24, 23-27).
Ma soprattutto il terzo annuncio della passione rivolto ai dodici discepoli (20, 17-19), come pure quello al Getsemani quando sta per scoccare l’ora decisiva (26, 45-46), si caricano di quella specialissima attenzione dovuta alla tragica gravitas dell’imminente consegna/tradimento del Figlio dell’uomo: «Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte, e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà”» (20, 17-19). «Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: “Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino”» (26, 45-46).
Sentenzieranno acutamente i Medievali: Ubi amor, ibi oculus. Libenter aspicimus, quem multum diligimus (Riccardo di San Vittore, Benjamin minor, XIII, 18-19; sc 419, p. 126), in effetti il nostro sguardo si appunta con passione e attenzione su chi amiamo in modo speciale.
Lo sa bene la scrittura evangelica di Matteo, come pure — ciascuna a suo modo — quelle di Marco, Luca e Giovanni. Tutte eccellenti scuole di contemplatio ad amorem: a noi di lasciarcene istruire.
di Roberto Vignolo
Ordinario di Esegesi e Teologia biblica Facoltà teologica di Milano