· Città del Vaticano ·

Memoria liturgica del vescovo Gennaro martire sotto Diocleziano

La devozione popolare napoletana per il santo patrono

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18 settembre 2020

Dei malviventi entrano nel duomo di Napoli. Vi è un’anziana signora, in ginocchio davanti la statua di san Gennaro. Parla con lui, con tono confidenziale, come si fa con un amico: «Io la cartolina l’aggio spedita, come hai detto tu. Con i trecento punti. E come mai non è arrivato niente? La lavatrice non è arrivata! Io aspettavo te che ci mettevi una buona parola». È uno dei fotogrammi più famosi della storia del cinema italiano degli anni Sessanta, ma che conserva una freschezza geniale. È Operazione San Gennaro, intramontabile film di Dino Risi, girato nel 1966, con un un cast d’eccezione: Nino Manfredi, protagonista indiscusso della pellicola, e un delizioso cameo di Totò, in una delle sue ultime apparizioni cinematografiche. Citazione cinefila obbligatoria, solo per dare un po’ l’idea iconografica di quello che è stato — ed è tutt’ora, anche nel nostro oggi sicuramente più secolarizzato — il rapporto tra il popolo napoletano e il suo santo.

Nel cuore, nella mente dei fedeli (e perché no, anche di chi non crede), san Gennaro è sempre rimasto l’amico sincero a cui poter confidare tutto: le delusioni, le speranze, i problemi di ogni sorta (da quelli materiali a quelli spirituali) per poi poter chiedere la sua intercessione: “il trattamento”, così con sottile ironia, l’aveva definita Massimo Troisi in un altrettanto famoso sketch televisivo degli anni Ottanta, dal titolo — appunto — San Gennaro.

San Gennaro e il miracolo del sangue, san Gennaro e il famoso tesoro: Napoli vive la sua fede popolare, ormai da diversi decenni, di questi due “capisaldi” che formano il cuore pulsante dell’amore che la città partenopea porta al santo. Devozione popolare che si mescola, (“se revota”, si direbbe in napoletano) con la fede, come “ll’onne de lu mare”, tanto per citare la canzone Marechiaro di Di Giacomo, poeta ottocentesco partenopeo.

Il miracolo del sangue è “stabilito” nei giorni: 16 dicembre, il sabato precedente la prima domenica di maggio (ricorrenza del trasferimento del corpo del santo da Pozzuoli a Napoli) e 19 settembre, giorno della festa del santo. Bisogna però precisare che il termine “miracolo” — seppur così viene da tutti conosciuto — è improprio perché secondo i canoni giuridici della Chiesa si tratterebbe di “prodigio”, un evento inspiegabile dalla “ragione”. È il “prodigio” della liquefazione. Il sangue, che secondo la tradizione fu raccolto dal corpo del patrono della città dopo il suo martirio, da “solido” passa a “liquido”: è il segno di protezione da parte di san Gennaro. È tutta la città partenopea a vivere questa attesa con profonda commozione: in questo evento vive tutto il profondo sentimento di unione — quasi viscerale, si potrebbe dire — con il santo, e in questo climax animi riecheggia tutta la traghedia greca, con il coro attento a commentare i fatti accaduti.

Ma non si può dimenticare nelle memorie popolari di Napoli, la famosa “Cappella del tesoro” che si trova all’interno del duomo. Fu edificata nel 1601, a seguito di un voto formulato dalla città dopo la grazia ricevuta da san Gennaro per lo scampato pericolo della pestilenza e di altre gravi malattie, nel terribile biennio 1526-1527, anni oscuri per la storia della città partenopea. Solo nel 1646 la cappella fu portata a termine e finalmente consacrata.

All’interno è custodita una parte del tesoro, ma già la struttura stessa risulta di per sé un vero capolavoro: vi lavorarono alcuni degli artisti più importanti del Seicento napoletano, tra i quali Caracciolo, Corenzio e De Ribera, che hanno lasciato opere di inestimabile valore. La cappella conserva oggetti, monili preziosi, tessuti che raccontano ognuno una storia. È il caso, ad esempio, della cosiddetta “Collana del Tesoro di San Gennaro”, realizzata dal 1679 al 1929: rappresenta la storia di 250 anni d’Europa, il risultato della devozione di re e regine, nobili e gente comune. Nel 1679, la Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro — l’organismo laico che da più di cinquecento anni ha il compito e la responsabilità di promuovere e custodire le reliquie del santo — diede l’incarico all’orafo napoletano Michele Dato di realizzare un ornamento per il busto di san Gennaro, costituito da 13 grosse maglie d’oro con diamanti, smeraldi e rubini, donate dalla Deputazione.

Una volta realizzata la collana, l’istituzione partenopea ritenne che fosse poco preziosa per il busto e così in epoche successive si è arricchita, aggiungendo altri gioielli donati da re e regine passati per Napoli. Nomi illustri parteciparono alla donazione: la regina Maria Amalia di Sassonia, Carlo III di Borbone, la regina Maria Carolina d’Asburgo, Francesco i d’Austria, Giuseppe Bonaparte, Maria Cristina di Savoia, Vittorio Emanuele ii di Savoia. Ma non mancarono, certamente, le donazioni da parte del popolo. Anche un’anziana signora anonima, per ringraziare di essere scampata alla peste, offrì il patrimonio più grande che avesse: due semplici orecchini, tramandati dalla bisnonna che sarebbero poi stati lasciati in eredità alle sue figlie. La Deputazione, ritenendolo un gesto nobilissimo, fece inserire i due orecchini nella parte superiore della collana. Un episodio curioso risale al 1929. La regina Maria José del Belgio, moglie di Umberto ii di Savoia, decise di visitare la “Cappella del santo”, ma si presentò senza alcun omaggio. Era tradizione consolidata tra i potenti europei, infatti, offrire un dono al santo patrono quando si recavano in visita a Napoli. Silenzio nella sala, qualche attimo di naturale imbarazzo. Quando poi, la regina Maria Josè si sfilò dal dito un anello d’oro con diamante. Era il suo dono, che ora si trova al centro del collare, proprio tra i due orecchini della sconociuta popolana. Il santo compie miracoli anche di questo genere: unisce tutti, senza distinzione di ceto, perché la Chiesa è comunità.

di Antonio Tarallo