· Città del Vaticano ·

La sobrietà come ritorno alla terra e ai dettagli dell’esistenza ordinaria

Coscienze responsabili

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18 settembre 2020

A cinque anni dalla pubblicazione della Laudato si’, questo Tempo del creato ha un sapore speciale. C’è una molteplicità di iniziative, nonostante le limitazioni della pandemia, per dare giusto risalto a quello che Papa Francesco ha voluto indicare come giubileo della terra. C’è gusto nel riprendere attività all’aperto, a diretto contatto con la natura, in ascolto del suo grido e in contemplazione del suo dono. Per l’occasione, la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della Cei ha denunciato che «troppo spesso abbiamo pensato di essere padroni e abbiamo rovinato, distrutto, inquinato quell’armonia di viventi in cui siamo inseriti». Ci siamo resi protagonisti di un «eccesso antropologico» che ha rovinato l’ambiente e prima ancora la vita dell’uomo. Da qui la proposta di stili di vita rinnovati, facendo tesoro dell’indicazione della lettera a Tito di saper «vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (Tito, 2, 12).

La sobrietà non è una medicina amara. Non fa neanche rima con austerity. È invece parente stretta della libertà. Ciò che rende felice l’esistenza umana non è la quantità di denaro o di beni a disposizione, ma sono le relazioni che fanno vivere connessi e amati. La sobrietà è sì una rinuncia allo spreco e al lusso, ma è ancor di più la scelta verso una pienezza di vita: tempo da dedicare, parole da accogliere e donare, attenzione alle persone. Se in negativo coincide con una privazione, in positivo è una scelta che dà senso alla vita. Ne esce migliorata la qualità dell’esistenza di chi la sposa: rende liberi dai lacci del denaro, del potere, dell’autoreferenzialità, della dipendenza. Se la macchina economica si ingrossa con acquisti voraci, la sobrietà si alimenta di gioia del condividere.

Il vangelo ci racconta (Luca, 12, 16-21) dell’uomo convinto di aver accumulato tanti beni da potersi sentire al sicuro da ogni pericolo. Con i suoi raccolti abbondanti e i magazzini pieni può affermare con soddisfazione: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!» (v. 19). Tale stile di vita è dichiarato stolto, perché l’uomo è di passaggio sulla terra e non ci si può illudere di possedere per sempre i beni. L’accumulo di soldi e cose, per chi sarà? Il vangelo esalta la sapienza di chi si arricchisce presso Dio: la sobrietà trova qui il suo punto di innesto. È l’esaltazione delle relazioni che fanno dell’uomo un unicum nella creazione. Può gustare, contemplare, cooperare, costruire, compartecipare, accogliere e donare, gioire, eccetera. La coscienza umana non sta mai di fronte ai beni come a qualcosa di statico da accumulare ma di dinamico da mettere in circolo per il bene di tutti. È il senso della destinazione universale dei beni, ben evidenziata dalla dottrina sociale della Chiesa.

L’illusione che l’abbondanza possa acquietare l’uomo, felice con la pancia piena, pone l’interrogativo circa la sazietà. Quanto è abbastanza nella cultura della massimizzazione dei profitti e degli interessi particolari? E poi, quanta giustizia e quanta ingiustizia possiamo permetterci?

Nietzsche aveva lanciato l’abbandono della terra ferma per navigare nell’immensità dell’oceano. In una efficace immagine de La gaia scienza sognava: «Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle, e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi».

La metafora rende bene l’idea e il passaggio culturale. La storia si presenta come un mare infinito in cui navigare senza sosta e senza meta. Bisogna solo vincere la tentazione di avere nostalgia della terra. Nessun porto è sicuro per chi ha il coraggio di tagliare i ponti alle proprie spalle. La terra rappresenta il limite. Le sue risorse sono limitate. Nessuna nostalgia di un luogo che necessita di ancoraggi. L’infinito assume il volto dell’indefinito senza porto e diventa la nuova illusione. La terra è il peso di cui liberarsi, la zavorra della legge di gravità. È il senso del “vietato vietare”.

A differenza di Nietzsche, la sobrietà sponsorizza un ritorno alla terra. Niente di più biblico, a ben pensarci. La promessa di Dio, infatti, «non riguarda l’anima o lo spirito, ma la carne e la terra» (S. Quinzio). Il sogno di Israele nell’Esodo è entrare nella terra promessa. I doni di Dio si identificano nello shalom, che è la pienezza di vita e di pace. Altro che cristianesimo come fuga del mondo: la sobrietà sollecita a stare così bene nel mondo da sentirsi parte di un progetto in cui trova senso ogni creatura in relazione con le altre. Ogni creatura è realmente connessa alle altre. L’autoreferenzialità onnipotente e onnivora pensa all’individuo come ombelico del mondo: tutto ruota intorno alle proprie voglie. Tra l’altro, il testo di Genesi suggerisce l’importanza del dare nome alle cose e agli animali (Genesi, 2, 19-20). La nominazione diventa il modo con cui entriamo in relazione con ciò che è altro da noi. Compito dell’uomo è «imporre il nome a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici» (v.20), entrando in una familiarità speciale con tutte le creature. Dare il nome diventa un modo per sentirci partecipi, per accogliere la diversità che appare nella forma specifica della biodiversità. Dove si impoverisce la nominazione c’è un impoverimento relazionale. Gli esempi potrebbero essere molti: in alcune lingue africane esiste una decina di termini per indicare il frutto che nelle lingue occidentali viene chiamato «banana».

Come suggerisce Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato 2020, «dobbiamo sfruttare questo momento decisivo per porre termine ad attività e finalità superflue e distruttive, e coltivare valori, legami e progetti generativi. Dobbiamo esaminare le nostre abitudini nell’uso dell’energia, nei consumi, nei trasporti e nell’alimentazione». Non resta che allenarci al discernimento comunitario per capire quali scelte sono possibili nell’immediato e quali invece possono diventare concrete realizzazioni in tempi più lunghi. I campi di azione sono molteplici: la mobilità stradale, l’edilizia familiare, l’adozione del lavoro in smart working, la raccolta differenziata dei rifiuti, gli investimenti finanziari in beni e progetti green, l’economia circolare, il turismo sostenibile, l’attenzione a non sprecare acqua e risorse naturali, una equilibrata alimentazione che non esagera nel consumo di carne, un’agricoltura di qualità a custodia della biodiversità, il superamento di allevamenti intensivi, l’oculata gestione del riscaldamento e del raffreddamento domestico, e via di questo passo.

Sempre i vescovi italiani scrivono nel loro messaggio: «Gli stili di vita ci portano a riflettere sulle nostre relazioni, consapevoli che la famiglia umana si costruisce nella diversità delle differenze». Le scelte concrete che instaurano nuove relazioni con il creato fanno sì che «prevalga il senso sul vuoto, l’unità sulla divisione, il noi sull’io, l’inclusione sull’esclusione».

La sobrietà genera speranza. Ci rende protagonisti di un diverso modello di sviluppo. Forma coscienze responsabili. Consegna un mondo migliore alle future generazioni. Dichiara la nostra attuale capacità di cura. Ci fa consapevoli che è sempre possibile reagire davanti ai problemi dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici: non siamo rassegnati né ci accontentiamo di subire gli eventi che accadono intorno a noi. Ci sentiamo affidati alle mani amorevoli di Dio e ci impegniamo a custodire il dono ricevuto dal Creatore.

Gli stili di vita educano all’attenzione alle piccole cose. Alle scelte quotidiane. Ai dettagli della vita ordinaria, a livello personale, familiare, sociale e comunitario. Non è sempre vero, come si dice, che il diavolo si nasconde nei dettagli. Più spesso, nei dettagli opera lo Spirito, capace di rinnovare la faccia della terra (Salmi, 103, 30).

di Bruno Bignami