· Città del Vaticano ·

Giovanni Testori raccontato da Luca Doninelli

Cosa fa di un uomo un maestro

Giovanni Testori
19 settembre 2020

«Quella che leggerete è una storia piccola, quasi invisibile. È la storia della mia amicizia con il mio maestro, Giovanni Testori (1923-1993). Se la propongo ai lettori è per due ragioni: la prima è perché essa apre una finestra su uno dei rapporti fondamentali che legano le persone tra loro, il rapporto maestro-discepolo. La seconda è perché Giovanni Testori si è situato in controtendenza rispetto alla grande maggioranza degli intellettuali del suo tempo, che rifuggivano l’idea di far da maestri a qualcuno. Giovanni Testori mi ha insegnato a difendere, magari in un modo che può apparire talvolta irritante e scandaloso, la dignità di ogni singolo essere umano, sia pure il più turpe e indifendibile. Mi ha insegnato che un uomo comincia a essere “qualcuno” solo se ha avuto il coraggio di sperimentare e affrontare il niente che è. Infine, mi ha insegnato a fare tutto ciò non a modo suo, ma a modo mio».

È così che Luca Doninelli presenta in quarta di copertina il suo viaggio a ritroso nel futuro (avete letto bene), con quello che è stato il suo maestro: Giovanni Testori. Un rapporto magistralmente fotografato fin dal titolo (Una gratitudine senza debiti, La nave di Teseo, 2018) e la cui connessione col futuro è svelata in poche, semplici parole: «Il maestro è invece una casualità che ci può toccare nel cuore del nostro incessante rapporto con il futuro, nel ganglio vitale di quel continuo fare-disfare-rifare progetti che è la materia di cui noi siamo fatti, i sogni di Shakespeare».

Doninelli condivide con il lettore la sua storia di giovane autore già in possesso di una voce, ma che per fare definitivamente di quella voce la sua ha dovuto attendere di incontrare Giovanni Testori. Un libro onesto, sincero e senza fronzoli, che pone sul tavolo un tema quasi dimenticato (e i risultati in giro si vedono) del maestro, della necessità per ciascuno di noi di incontrare qualcuno che non ci insegni bensì ci consegni qualcosa di decisivo. E si fidi di quel che ne faremo.

Per esempio, come quando Testori racconta a Luca del baratro depressivo nel quale sprofondò dopo la morte della madre, di come una notte in treno tornando da Parigi, avesse deciso di farla finita e di quel bigliettaio che ha complicato la faccenda. Perché un maestro ti rende partecipe di una notte così? Cosa vuole insegnarti? Nulla. Ti sta consegnando un mistero. L’intricato controcanto del vivere che è perenne sottofondo alla nostra prova umana, ai dolori e alle disperazioni che ne conseguono. A te, allievo, ricevere questa consegna e farne ciò che credi.

Doninelli inizia il racconto precisando che questa è una storia piccola e che di grande però ha che essa c’è stata e che ancora oggi e chissà ancora per quanto sprigionerà i suoi effetti. Ricorda il primo incontro a casa di Testori nel quale il maestro non si era dimenticato il suo nome, «Luca, Luca!» lo accolse nel suo studio al numero 8 di via Brera. E lì iniziò il viaggio del giovane autore di Leno di fianco al drammaturgo milanese che come commentatore e polemista aveva sostituito, sulle colonne del «Corsera», la penna di Pasolini.

Testori piangeva, ricorda Doninelli, lo ricorda al cospetto di eventi di cronaca nera nei quali Testori trovava la forza di offrire compassione anche al mostro, e divideva le proprie lacrime fra la cosiddetta vittima e il carnefice.

E si badi bene, Luca non ricollega a qualcosa di vago che definiamo “cuore” bensì all’intelligenza questa impossibilità testoriana di sfuggire a ciò che ti colpisce lo stomaco rendendo dignità a quel pianto che non temeva di scandalizzare.

Più che dare scandalo la vita di Testori è stata un continuo suggerire di prenderne atto, di non abbassare il capo di fronte alla propria miseria e di interrogarla fino alla tortura per ottenere in cambio qualche dettaglio in più circa la destinazione della nostra natura.

In ogni cosa che a Testori procurava pena e solitudine (quell’omosessualità che Doninelli ci riferisce vissuta con grande “disperazione”) era però custodita l’anima, il senso della nostra partita con la vita.

Una partita nella quale Testori, dopo la morte della madre, non solo lascia spazio ma reclama che a portare palla sia Dio. Nelle sue poesie, nei suoi scritti, Testori non prega Dio, lo strattona, lo provoca, gli estorce l’esserci.

Al cospetto di questo corpo a corpo con la vita e con Dio, Doninelli cammina e si forma al fianco del suo maestro e prima ancora che nella letteratura è nel mondo del teatro, e della compagnia cui Testori diede vita, che l’autore sperimenta cosa vuole dire avere una guida. Fare incontri. Questo, per esempio, è uno degli aspetti che emerge dalla narrazione di quei giorni, il fatto che avere un maestro significhi collezionare volti e amici nuovi (Emanuele Banterle, per citarne uno) gente che risulterà importante e decisiva nei tuoi giorni tanto e magari più delle parole stesse del tuo mentore.

Perché se sono attorno a lui essi sono in qualche modo già dentro di te. Il maestro “fa le presentazioni” vorremmo dire.

«Non devo niente a Giovanni Testori e in questo non dover niente c’è il senso del magistero» precisa l’autore, infilando il dito nella ferita contemporanea che scambia i debiti con le eredità.

Che mondo sarebbe senza maestri, viene da chiedersi leggendo il libro, probabilmente un mondo né meglio né peggio di questo, semplicemente fatalmente superficiale, inerme rispetto a se stesso. «Si dice che non sapremo mai ciò che siamo veramente. La realtà è che il più delle volte non abbiamo nessuna voglia di saperlo… il maestro è colui che prima di ogni altra cosa ci fa sentire a disagio nei panni che ci siamo (ci hanno) ritagliati addosso».

Doninelli rivela angoli e spigolosità di Testori, e mostra come il rinvenimento dei limiti (con forme diverse) anche dentro se stesso sia uno dei grandi giochi di prestigio del magistero di Testori nella sua vita. Arriva a dire, l’autore, che se prima e dopo la morte di Testori egli ha scritto qualche buona pagina questa la deve a Testori stesso.

Nel fatto che questo sia probabilmente inesatto e che Doninelli ne sia assolutamente convinto si annida il mistero del rapporto fra maestro e allievo.

Un volumetto che vola velocissimo e che v’invitiamo a solcare voi stessi, ammesso che siate disposti ad accettarne il suggerimento più decisivo: fai la cosa sbagliata.

«Dal maestro — chiude infatti Doninelli — impariamo, finalmente, a dire le parole sbagliate, a pensare i pensieri sbagliati, a scrivere i libri sbagliati e c’è un’allegria feroce in tutto questo, feroce e irripetibile che ci fa sentire vicino il nostro cuore come nient’altro al mondo, ne sentiamo il battito potente, e c’è una felicità selvatica che chi dirà, penserà e scriverà solo cose giuste non avrà mai la possibilità di provare».

di Cristiano Governa