· Città del Vaticano ·

Un ricordo di Michael Lonsdale

Cattivissimo me

b416d2870fa79513c63e993e4bf176bd.jpg
24 settembre 2020

Il dialogo sull’amore nel giardino del convento, una delle scene più belle del film (Des hommes et des dieux dedicato da Xavier Beauvois ai monaci martiri di Tibhirine) sul copione non c’era; è una improvvisazione di Michael Lonsdale, l’attore che ha interpretato Luc, il frate medico. Michael Lonsdale, il “cattivo” di tanti film, l’icona del male assoluto contro cui lotta James Bond in Moonraker — Operazione Spazio (diretto da Lewis Gilbert nel 1979. Ma ne I fratelli Karamazov, di Marcel Bluwal, di dieci anni prima, aveva impersonato addirittura il diavolo) è morto a Parigi il 21 settembre scorso. Specialista in villain per lavoro, ma, nella vita, una persona di rara dolcezza e profondità. Che non ha mai fatto mistero della sua fede cristiana.

Il ruolo in Des hommes et des dieux che gli è valso il César, l’oscar francese, è stato anche un’occasione preziosa per parlare della sua amicizia di lunga data con Gesù; ed è diventato, di fatto, il suo testamento, artistico e spirituale insieme. Nel corso della sua lunga carriera, ha recitato per registi come François Truffaut, Louis Malle, Luis Buñuel. All’anagrafe Michael Edward Lonsdale-Crouch, era nato a Parigi il 24 maggio 1931 da madre francese e padre inglese; passò l’infanzia a Londra, trasferendosi poi in Marocco. Debuttò sul grande schermo nel film di Michel Boisrond C’est arrivé à Aden (1956) per poi conquistare la stima di Gèrard Oury, Michel Devill, Jean-Pierre Mocky, Edouard Molinaro, oltre all’ammirazione di Marguerite Duras; Orson Welles lo scelse per il ruolo di sacerdote nel film Il processo (1962) con Anthony Perkins e Jeanne Moreau. Della sua conversione parla a lungo nel libro Dare un volto all’amore. La mia fede da Spielberg a Tibhirine (Bologna, Emi, 2015). «Sono sempre stato curioso ma nel senso buono del termine — scrive l’attore — curioso di comprendere, avido di conoscere. La mia era una fame profonda per il mondo, per gli altri». Ma la timidezza, durante l’adolescenza, era talmente grande da sembrare un ostacolo insormontabile. Gli verrà presto in soccorso il teatro. «Un’amica di mia madre mi incoraggiò e così mi sono iscritto agli Ateliers d’art sacré che si trovavano a Parigi in Place Furstenberg, nell’antico atelier di Eugène Delacroix. All’epoca, negli anni Cinquanta, andavo lì per imparare a dipingere. Ma era soprattutto l’occasione per incontrare religiosi, intellettuali, artisti, persone che vivevano una vera ricerca spirituale».

Questa storia, racconta Lonsdale, «può sembrare banale, ma ha inaugurato il mio cammino con Gesù. In quell’atelier incontrai un domenicano, padre Raymond Régamey, che offriva un insegnamento appassionato spiegando il rapporto fra arte e fede». Dall’amore per la bellezza alla domanda sul significato della vita il passo è stato breve. «”Ma tu cosa cerchi?” domandava padre Régamey al giovane allievo. “Non so cosa dire; cerco qualcosa di vero, di buono, di grande”. Erano parole molto banali, anche un po’ scontate. “Credo che forse quel che stai cercando è Dio, semplicemente”, replicò». Quel che seguì gli diede ragione.

«Esistono più attori credenti di quel che si pensa — continua Lonsdale nelle sue memorie — Fin dal mio debutto la fede non è stata lontano dal mio lavoro. Fu padre Ambroise-Marie Carré — cappellano degli artisti — che mi incoraggiò a seguire i corsi di Tania Balachova. Per suo tramite ho conosciuto Jean-Louis Trintignant, Laurent Terzieff, Delphine Seyrig. Tania ha rotto la timidezza che mi imprigionava: io preferivo ruoli divertenti o leggeri, lei mi ha costretto ad arrabbiarmi».

La chiave per aprire un nuovo mondo espressivo arrivò grazie al personaggio di Alceste, nella prima scena del Misantropo di Molière. «Ci ho messo del tempo, ma alla fine sono riuscito a liberare tutta la mia energia. Arrivando perfino a distruggere una sedia. Ero spaventato da me stesso, ma soddisfatto». Il teatro non è un cammino facile, continua Lonsdale: l’arte trova la sua sorgente in una ferita, una mancanza profonda.

«Sono stato un curato di campagna, un religioso, un cardinale e anche rettore della Grande Moschea di Parigi, persino l’arcangelo Gabriele». L’attore, continua Lonsdale, non è un uomo fuori dal mondo, vive immerso nella realtà, si dibatte tra il bene e il male, come tutti, e vive la condizione umana attraverso un gioco, quello del teatro o del cinema, che permette di vivere molte vite; «la creazione è come un grido, che rende la bruttezza qualcosa di sublime». Michael Lonsdale è stato tra i fondatori, insieme ad Anne Facerias e Yvon Bertorello del «Festival du Silence», un convegno-gemellaggio tra il Festival di Cannes e l’abbazia di Lerino, a pochi minuti di traghetto dalla Croisette; un’iniziativa nata proprio per far dialogare due mondi apparentemente lontani.

«Non ho mai fatto prediche ai miei colleghi sul set — teneva a precisare Lonsdale — ero convinto che il modo stesso di vivere il mio mestiere avrebbe dovuto testimoniare ciò che conta per me. Come diceva Einstein, penso che il caso sia Dio che si presenta in incognito».

di Silvia Guidi