· Città del Vaticano ·

Il dramma dell’immigrazione nel film «Nour» di Maurizio Zaccaro

Un medico a Lampedusa

Linda Mresy e Sergio Castellitto in una scena del film
18 agosto 2020

Il placido guardar le stelle di due turiste in barca viene interrotto da grida d’aiuto. La notte calma, poetica d’una vacanza nel Mediterraneo, nel lembo più a Sud di terra italiana, incontra la tenebra fredda, disperata, in cui altra umanità si trova prigioniera. È così, con questo contatto inevitabile, con questi due mondi uno nell’altro, volti diversi dello stesso mare, che si apre Nour, il film di Maurizio Zaccaro ispirato al libro Lacrime di sale, scritto — insieme alla giornalista Lidia Tilotta — da Pietro Bartolo: il medico, oggi europarlamentare, che per circa trent’anni è stato direttore del poliambulatorio di Lampedusa e responsabile delle prime visite ai migranti sbarcati sull’isola.

La sua storia, la sua incoraggiante, esemplare, ostinazione lavorativa, visceralmente legata a una radicale idea di umanità, sono affidate a Sergio Castellitto, che con un delicato accento siciliano e un trasporto visibile in ogni sequenza, sostiene e accompagna questo film — uscito nelle sale dal 10, al 12 agosto e dal 20 visibile su Sky — nel delicato compito di rendere più tangibile, vivo, necessariamente doloroso a ogni cuore distratto, il fenomeno delle migrazioni, con le storie, spesso tragiche, di quegli esseri umani che a un certo punto del film guardano in macchina pronunciando nome e provenienza direttamente allo spettatore: per ricordargli che sono persone con dignità e identità, anche se può essergli rimasto solo il «corpo» e la «fame», dice Bartolo, e la «paura» dopo la costrizione «a vivere pagandosi la morte».

L’esperienza del medico è versata in questo film dedicato a Ermanno Olmi — di cui Zaccaro è stato amico e collaboratore — che ha il suo nucleo centrale nella storia di Nour, una ragazzina siriana di 11 anni, la quale, separata a forza dalla madre in Libia, poco prima di salire su un barcone, viene aiutata proprio da Bartolo a ritrovarla. È a lieto fine, la vicenda di Nour, ed è un racconto di speranza più che una trama televisiva; è una storia vera frutto della tenacia del figlio di un pescatore: l’unico, tra sette fratelli, a poter studiare e diventare medico.

Da qui un «peso», e una «responsabilità», ricorda il protagonista, quei muscoli dell’anima per saltare sopra ogni forma di sufficienza, per andare, se serve a costruire il bene, oltre il protocollo: aiutando quella donna che deve volare a Palermo per partorire a non separarsi dai suoi cari, e più in generale a vedere una vita da proteggere dietro le facce smarrite e le sagome provate, ammassate tra le coperte termiche. È una storia, quella di Nour, la cui luce offre ossigeno per rimanere in apnea tra gli abissi di altre storie, come quella di Hassan — racconta sempre il film — che ha perso il suo bambino nella traversata, e a Bartolo tocca l’amaro compito di comunicargli il ritrovamento, dopo averlo riconosciuto coi pantaloncini rossi dentro un sacco numerato, il 209, in mezzo ad altri corpi senza vita. «Apro gli occhi e lo vedo, chiudo gli occhi e lo vedo», confessa a sua moglie parlando di questa storia tragica, accolta, come tutte le altre, senza tirarsi indietro, con quella sofferenza che non gli impedisce di dire, alla fine del film, «aspetto», nella sua opera di soccorritore, da abitante di quell’isola che ha sempre considerato «porto aperto» e che definisce «alta» e «fiera» per la sua capacità di abbracciare il bisognoso nonostante i segni portati dentro per il dolore visto, per la morte toccata tante volte.

Anzi proprio per questo è necessario esserci. «Dicono che ci si abitua — spiega il medico in un’altra sequenza — ma non ci si abitua mai». Lo stesso ha scelto di spendere, di dedicare — non di sprecare come qualcuno vuole fargli credere nel film — la sua vita lì, per ciò che è «giusto», e la sua testimonianza è il motore con cui Nour si propone di penetrare la pelle dello spettatore meglio dei fiumi di notizie con i loro numeri freddi. Lo fa scegliendo la strada dell’asciuttezza, della semplicità narrativa al servizio della sostanza, di una magrezza robusta e non impermeabile a immagini e parole importanti, a pensieri come quello che Bartolo esprime dialogando con un fotografo perplesso, impaurito, che si chiede dove finisca tutta quella gente dopo che il medico l’ha curata.

«Mi piace immaginare l’umanità come un unico corpo — spiega il dottore di Lampedusa — se ti fa male un braccio tutto il corpo sta male. Se una parte dell’umanità soffre, tutto il resto dell’umanità non può stare sereno». È una frase che riprende i versi antichi del poeta persiano Saadi di Chiraz, leggibili anche sul palazzo di vetro dell’Onu. È piena di bellezza perché parla di umanità prima che di qualsiasi altra cosa e di un unico paese, di una relazione e di uno scambio, di una solidarietà tra tutti gli uomini che vale il beneficio di ognuno. È un incoraggiamento, anche, a quella giornalista che arrivata sull’isola, di fronte alla tragedia si chiede: «Scriviamo articoli su articoli, non so se serve a qualcosa». Serve a non voltarsi dall’altra parte perché «l’orrore ha bisogno di testimoni» risponde il medico appena uscito da un’altra dolorosa ispezione cadaverica. «Fai bene a dirlo», consiglia anche al giovane che parla dal microfono di Radio Delta Lampedusa, anche se non sono in tanti ad ascoltare, anche se facilmente quel che accade provoca rabbia e frustrazione, e la triste forza degli eventi è superiore all’impegno di uomini sensibili e combattivi.

Anche se un gruppo di tombe senza nome, in uno spazio ricavato dentro al cimitero, ha bisogno di un cartello che ricordi di non gettarvi sopra i rifiuti: la necessità di quella scritta è un sottile indicatore della quantità enorme di lavoro da fare, e il primo passo da compiere è una stretta di mano tra uomini come quella che Pietro Bartolo allunga al sacerdote dopo le loro piccole incomprensioni e discussioni per le richieste continue del medico. È una unione necessaria a combattere quella «globalizzazione dell’indifferenza» in cui siamo «caduti», disse Papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa nel 2013. E il cinema, con un paradigma etico e di perseveranza come quello di Pietro Bartolo, può offrire occhi per far lavorare dentro di noi la verità, per rendenderci meno «insensibili alle grida degli altri», disse ancora Bergoglio nell’omelia sull’isola, esprimendo, in quella sua visita, già tutta la sua profonda compassione per ogni vita rischiosamente in fuga da situazioni difficili.

di Edoardo Zaccagnini