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Il contributo del beato Rosmini alla conversione di John Henry Newman

Luci vivide di un’unica Verità

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10 agosto 2020

L’Ottocento ha donato all’umanità due tra i maggiori pensatori dell’intera storia della cristianità: l’inglese John Henry Newman (1801-1890), canonizzato nel 2019 da Papa Francesco, e l’italiano Antonio Rosmini (1797-1855) beatificato nel 2007 da Benedetto XVI. Immaginiamo ora due tronchi d’albero sulle placide acque di un fiume: essi si abbandonano alla corrente, senza opporre alcuna resistenza. In modo simile anche Newman — del quale l’11 agosto ricorrono i 130 anni della morte — e Rosmini, obbedendo in coscienza alla voce della Provvidenza, non hanno replicato alle pesanti calunnie addossategli da influenti uomini del tempo. Tra questi due veri figli della Chiesa in effetti c’è stata una forte intesa spirituale e coscienziale, proficua e determinante soprattutto per Newman, che accostandosi ai padri rosminiani d’Inghilterra ha maturato la svolta più importante della sua vita: la conversione dall’anglicanesimo al cattolicesimo che, per ricorrere al suo raffinato eloquio, «fu come entrare in un porto dopo essere stati nel mare in burrasca» (John Henry Newman, Apologia pro vita sua, Edizioni Paoline, 2001, pagina 378).

Qual è stato l’importante apporto offerto dal rosminianesimo nella conversione di Newman? La memoria liturgica del santo inglese si celebra il giorno della conversione al cattolicesimo, avvenuta il 9 ottobre 1845. Per liberare il campo da ogni equivoco il londinese e il roveretano, «duplice e splendente luce di un’unica fonte di Verità», non si sono mai incontrati di persona, nonostante l’ardente desiderio nutrito da parte di entrambi. «Io spero che vedrò il sig. Newman — scrive Rosmini a monsignor Lusquet, vescovo di Esbon, il 7 dicembre 1846 — che Ella menziona nella venerata sua lettera, al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Phillips, che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di prestargli qualche servizio da queste parti […]» (Epistolario ascetico, volume III, «Lettera 999», Roma, 1912, pagina 334).

D’altro canto Newman, nella sua prima lettera inviata da Milano, annota: «Ci siamo trovati in mezzo agli amici di Rosmini e siamo sorpresi di trovare quanto facciano i Rosminiani in queste parti […] Abbiamo una missiva per Rosmini, che è comunque assente […]». Di fatto l’incontro non avverrà, e la ragione sembra a Newman piuttosto esile: «Rosmini — è scritto in una lettera del 18 ottobre — è passato da Milano. Mi ha inviato un cortese messaggio, spiegando che non ci ha chiamati perché lui non sa parlare il latino e io italiano […] Vorremmo avere molto di più da dire di lui, ma non riesco a cogliere l’essenza della sua filosofia» (Inos Biffi, Newman, ossia: «I Padri mi fecero cattolico», Jaca Book, 2009, pagine 90-91).

Una spiegazione più che plausibile riguardo al mancato incontro tra Newman e Rosmini ce l’ha fornita Pier Paolo Ottonello, uno dei massimi esperti viventi del roveretano. In questa sede riportiamo qualche cenno: «L’espressione recepita dal Newman nei termini “io Rosmini non so parlare latino e tu non sai parlare italiano” sarebbe dunque una sorta di messaggio cifrato, attraverso il quale avrebbe dovuto intendere pressappoco così: “io Rosmini conosco tanto gli ambienti romani che non voglio parlarne la lingua, e tu tanto poco li conosci che ti conviene il non saper parlare l’italiano”» (Pier Paolo Ottonello, Rosmini inattuale, Marsilio, 2011, pagine 173-185).

Ma anche se Newman non ha mai incontrato Rosmini, la sua vita si è comunque intrecciata con quelle dei padri rosminiani della provincia inglese. «Il 15 giugno 1835 verso mezzogiorno tre viaggiatori dall’Italia, risalendo il Tamigi, sbarcavano a Londra: erano missionari e li guidava un sacerdote romano, don Luigi Gentili (Antonio Rey ed Emilio Belisy). Con quello sbarco si iniziava “un capitolo della Seconda Primavera, the second spring” del cattolicesimo inglese come lo chiamò l’illustre vescovo di Salford, Mons. Louis Charles Casartelli […]. Sotto la direzione del Gentili a Grace-Dieu (vi era) un ministro protestante, il Wackerbath, scolaro del Pusey, primo iniziatore di quel movimento di Oxford, fra cui il dott. Giorgio Ward (padre del famoso scrittore Wilfrid)». E «così Gentili veniva in contatto con quel movimento, di cui lui pure concepì le più liete speranze […]» («L’Osservatore Romano», 16 giugno 1935, numero 141, pagina 3).

Il primo incontro tra i teologi del Movimento di Oxford e i padri rosminiani è avvenuto in questo contesto: «[…] Nell’autunno del 1841 quattro dei ministri di Oxford vennero a Grace Dieu; il Gentili strinse seco amicizia, e al contegno devoto in cui li vide assistere alla Messa e altre funzioni religiose nella cappella del luogo, ne rimase edificato. Uno di essi pare fosse il dottore Giorgio Ward, prebendato del Collegio di Balliol, che per ingegno e dottrina primeggiava fra gli anglocattolici: certo il Ward, scrivendo nell’ottobre di quest’anno al Phillips, gli manifesta la sua venerazione profonda al Gentili, che benignamente gli aveva dato leggere le Massime di perfezione cristiana del Rosmini, del qual libretto afferma “nulla poterci essere di più bello, più edificante, più sfuggente a ogni obbiezione”. E nel novembre il Gentili entrò in amichevole corrispondenza di lettere col Ward (il Ward fu ricevuto nella Chiesa Cattolica il 3 settembre 1845, un mese prima del Newman) inviandogli le opere filosofiche del Rosmini; ed ebbe la consolazione di sapere indi a poco che i ministri di Oxford, messisi a studiare in quelle opere, ne traevano grande vantaggio e diletto […]» (Giovanni Battista Pagani, La vita di Luigi Gentili, Roma, 1904, pagina 256).

La comunione di spirito fra questi umili operai nella vigna del Signore — «Gesù Cristo è l’unico libro che importi leggere, letto il quale si possiede ogni tesoro di sapienza e di scienza» (San Tommaso d’Aquino, Commento alla lettera ai Colossesi, 2, 3) — ha potuto sollevare la vita di migliaia di uomini dall’errore e solamente Lui, il Signore, che ha scrutato ed effuso la grazia nel cuore di figli come Newman, Rosmini e Gentili, può veramente conoscere questi pilastri della fede ai quali noi ci accostiamo, per dirla con Bernardo di Chartres, come nani sulle spalle di giganti. Ebbene, a noi tutti questi campioni della fede hanno permesso d’intraprendere ed esperire la Fede-sapienza e il Cristo-Storico (medesimo titolo dell’opera del filosofo umbro Teodorico Moretti-Costanzi), assurgendo così la nostra realtà coscienziale oltre l’orizzonte temporale.

Insomma, per ricorrere alle vigorose parole scaturite dalla penna di Newman, «[…] Accade di continuo nella storia della Chiesa che l’idea immediata e diretta che stimola gli uomini di fede a metter mano alla loro impresa sia solo una parte di essa o non abbia nulla a che vedere con ciò che in seguito gli eventi dimostreranno essere la missione. Tali uomini hanno un obiettivo definito in mente, e la Provvidenza li chiama; dunque essi partono armati di fede e obbedienza senza sapere dove li condurrà. Iniziano un compito limitato e sono condotti a impegnarsi per un lavoro più grande. Pensano ai propri fratelli e al proprio paese, ma la grazia e la benedizione di Dio fanno di loro un faro che illumina il mondo […]» (Scritti oratoriani, introduzione e note di Placid Murray, Cantagalli, 2010, pagina 179).

I “fari” che con i primi fasci di luce prima del mondo ebbero a illuminare l’Inghilterra e l’Irlanda s’incontrarono. «[…] Il 19 ottobre 1842 poté finalmente (il Gentili) dare una corsa sino a Oxford in compagnia del Phillips, e rivedere quei ministri dell’Università che già conosceva, e conoscerne altri e ragionare di religione con essi. Presso il Ward fece conoscenza di un giovine scozzese di nobile casato, Guglielmo Lockhart (passato alla Chiesa di Roma ed entrato nell’Istituto della Carità tra i Rosminiani: “Presbitero - anni di vita religiosa 49, London 1819-London 1892”; da Necrology of the brethren of the Institute of Charity, v edizione, 2008) che da poco aveva ottenuto il grado di baccelliere nel Collegio di Exeter: in questo primo incontro e colloquio col Gentili il Lockhart si sentì preso di venerazione verso di lui quasi a santo, e presto vedremo come in mano alla Provvidenza fu questo il filo per trarre il giovine dall’errore alla verità. Il Newman […] passava i più dei suoi giorni a Littlemore, poco lungi da Oxford, con alcuni pochi e fidi compagni, tra i quali il Lockhart, il Dalgairns, il Bowles menando vita quasi monastica, divisa tra lo studio e la preghiera e gli esercizi di penitenza. Che il Gentili lo abbia visitato a Littlemore è asserito dal Lockhart, il quale anzi aggiunge che dovette essere il dottor Bloxam quegli che introdusse al Newman il Phillips e il Gentili […] Il Gentili, narrata in una lettera la sua gita a Oxford e i particolari di essa, subito soggiunge: “Quegli che è alla testa del partito cattolico mi domandò d’istruirlo sul modo di dare gli esercizi, e quindi gli mandai gli esercizi del p. Generale (Rosmini) intitolati: Manuale dell’Esercitatore (scritti dal Rosmini tra il marzo e l’ottobre del 1839, oggi nel volume 51 dell’Edizione Nazionale), che ora si adopera dai medesimi nel loro così detto Convento” […]» (Giovanni Battista Pagani, La vita di Luigi Gentili, Roma, 1904, pagine 256-257). Dei momenti trascorsi a Littlemore da Gentili, si legge anche nella missiva: «Il Phillips poi, in una lettera al conte di Shrewsbury, descrive la visita che fece insieme col Gentili al dott. Newman, la cui cortesia parve loro tanto meravigliosa quanto l’erudizione e i talenti. Soggiunge che visitarono anche il Pusey, e lo trovarono quale se l’erano immaginato, uomo di umiltà pari alla dottrina; e che il Gentili ebbe con esso un colloquio importantissimo intorno al mistero della transustanziazione […]» (ibidem, pagina 258).

Occorre però soffermarsi ancora sulla figura di Guglielmo William Lockhart, poiché abiurò l’anglicanesimo due anni prima del suo maestro John Henry Newman: «[…] Il Newman aveva dato per compito al Lockhart di tradurre in inglese la storia ecclesiastica del Fleury e di scrivere la vita di San Gilberto di Sempringham. Ma il giovane scozzese a cui già prima era balenato qualche dubbio, dopo la visita del Gentili, dopo la meditazione delle Massime del Rosmini, in cui vedeva delineato il tipo del cristiano perfetto, era profondamente inquieto. Un dubbio continuo, prima combattuto e represso, poi più forte di lui, lo agitava: era egli sulla via del vero cristiano? Aveva egli nelle pratiche religiose che eseguiva, quel vero contatto con Cristo, da cui solo si deriva la grazia che fa i santi? Infatti il Lockhart anelava alla santità. Un giorno, dopo essersi confessato da Newman, gli rivolse una domanda, che, quante volte gli si era presentata altrettante aveva fino ad allora soffocato. Ora non più: bruciava troppo all’interno: “Siete sicuro, gli chiese tutto sconvolto, di avere la facoltà di assolvermi?”. Il Newman rimase pensoso: la domanda toccava il punto essenziale. Era di quelle che, una volta poste, non possono restare senza una risposta netta e certa. Se non aveva la certezza di assolvere, dunque non era sacerdote di Cristo: dunque tutto l’anglicanesimo, anche vivificato da una pratica austera di vita, non era la religione vera di Cristo: e bisognava cambiar rotta» (Bollettino Charitas, luglio 2009, numero 7).

«Il Newman sentì bene tutto il peso della questione, né seppe trarsi d’impaccio, che rispondendo: “Perché a me questa domanda? Interrogatene il Pusey”. La risposta era la peggiore che il Lockhart si potesse attendere: da un uomo ad un altro soltanto perché ritenuto più capace, e più maturo d’anni e di studi. L’esigenza era di passare dall’incerto al certo, dall’umano fallibile all’infallibile divino. Si persuase dunque che non valeva neppure la pena di interrogare più che il Pusey […] bensì il prete romano (il p. Gentili), dal quale aveva sentito promanare come un profluvio delicato di autentica virtù evangelica e la forza di una divina certezza […] e lo fece dapprima beninteso all’insaputa del Newman, per lettera (la prima nel marzo del 1843 la seconda nel luglio 1843) […] Svelato il suo nome e scusatolo di averlo innanzi taciuto, con quella confidente apertura, con quell’abbandono sicuro, che l’anima sitibonda di verità e di conforto sente soltanto per chi ha la certezza di essere investito di un potere sovrumano, il Lockhart manifesta al Gentili le interne sue inquietudini, la forte propensione verso il cattolicesimo, gli incessanti appelli di Dio, i bisogni del cuore, la brama di conoscere il fine la natura e lo spirito dell’Istituto rosminiano […] Non abbiamo le risposte del Gentili […] certo è che il giovane lasciava Littlemore e il Newman e i condiscepoli e si recava a Loughborough, nella contea di Lincoln, dove allora dimorava il Gentili […] Il Gentili, con lo sguardo scrutatore dei santi, seppe leggergli nel fondo dell’anima, più che il Lockhart non dicesse e non pensasse; e ne fece suo tutto il doloroso travaglio. Il Lockhart era legato al Newman dall’impegno preciso di non prendere nessuna decisione senza di lui e non prima di aver trascorsi tre anni alla sua scuola […] Ma una forza arcana lo urgeva potente, e gli faceva provare più e più da una parte il disgusto dell’anglicanesimo, sia pure vissuto con quell’altezza d’animo e con quelle austere esteriorità che si faceva a Littlemore […] Procrastinare anche di un poco sarebbe stato un rigettare il dono celeste, un’imperdonabile ingratitudine» (Bollettino Charitas, agosto-settembre 2009, numero 8).

«Il 26 agosto del 1843, nella cappella delle Suore Rosminiane di Loughborough, sotto gli sguardi di Maria SS. Annunciata a cui essa era dedicata, con indicibile gaudio dell’anima, nella gioia fraterna più schietta e più cordiale del Gentili e di pochi altri intimi, il Lockhart abiura l’anglicanesimo e si professa cattolico romano: pochi giorni dopo […] entrava novizio nell’Istituto della Carità. Dire come ne sia rimasto il Newman, è difficile. N’ebbe trafitta l’anima come da colpi di spada acuta. Scrisse al Gentili, rammaricandosi forte e della corrispondenza tenuta dal Lockhart con lui, e dei patti violati […] Il 25 settembre nel discorso — La partenza degli amici — apriva pubblicamente l’esasperazione dell’animo; poi si raccolse in un più austero ritiro nel suo Littlemore, pregando, combattendo, soffrendo: ma poiché l’animo (del Newman) era buono e sincero, nel febbraio 1844, dopo uno scambio di lettere, si rappacificava col Gentili, e ringraziando questo delle sue parole affettuose e di un libro mandatogli in dono, ricordava con accorato affetto il Lockhart a cui chiedeva di essere ricordato e raccomandato per preghiere […]» (Bollettino Charitas, ottobre 2009, numero 9).

Pochi mesi dopo la “riappacificazione” con i rosminiani, la Grazia aveva continuato a operare nel cuore di Newman. Così, il 9 ottobre del 1845, per opera del padre passionista Domenico della Madre di Dio, faceva anch’egli il suo ingresso nell’ovile in cui Cristo pasce le pecorelle da lui redente: «[…] Certamente il padre Domenico della Madre di Dio — scrisse lo stesso Newman — era uno strepitoso missionario e predicatore, ed ebbe gran parte nella mia propria conversione mia e di altri» («L’Osservatore Romano», 18 maggio 1935, numero 117, pagina 3).

Ancora a proposito della conversione di Newman, il Pusey ha redatto un articolo sulle colonne del giornale francese «L’ami de la Religion» che porta la data del 6 novembre 1845. Rispetto a questo pezzo il Rosmini ha aggiunto a sua volta delle osservazioni di lode, inviandole direttamente all’autore con una lettera datata 13 novembre 1845, che si concludeva con questo explicit: «[…] Io credo che quelli che si unirono testé alla Chiesa Cattolica abbiano trovata la via più sicura e più breve per ristorare a nuova vita la Chiesa anglicana. Le mie preghiere, o piuttosto quelle di noi tutti cattolici tendono a questo: ma noi preghiamo specialmente per colui, di cui il Signore si servì e si serve per purificare la Chiesa anglicana dall’eresia, e per mezzo del quale ha fatto nascere in essa un movimento sì consolante: noi preghiamo caldamente, acciocché il Signore si degni di fare divenire costui una di quelle pecore che affidò a Pietro, quando gli disse: “Pasci le mie pecore” […]» (Epistolario completo, volume ix, «Lettera 5478», 1892, pagina 405).

Infine, a una lettera redatta di suo pugno il 20 gennaio 1846, Rosmini affidava al conte Giacomo Mellerio queste parole alate: «Il Pagani mi scrive consolato dell’edificazione, che diede il signor Newman al nostro noviziato, dove la vigilia dell’Epifania fece la sua confessione, e ricevette la santissima Comunione nella nostra cappella. “Deh! Che spettacolo edificante, scrive, il vedere il signor Newman ricevere la sacra Comunione inginocchiato per terra coi nostri laici, e dietro ai nostri chierici, tra i quali si trovava il nostro Lockhart, una volta suo alunno, e figlio spirituale. Quantunque egli sia stato parroco dell’Università di Oxford e goda la fama di essere il primo ingegno d’Inghilterra, tuttavia egli non ha la minima pretensione, e brama essere trattato come l’ultimo dei convertiti”» (Epistolario completo, volume XIII, «Lettera 8116», pagina 230).

Per concludere, a significare lo stretto rapporto e l’affinità spirituale tra Rosmini e Newman, e tra i rosminiani e gli oratoriani, ecco cosa scrisse il Newman, venuto a conoscenza della morte di Rosmini: «Scrivo due righe alla Reverenza vostra per condolermi con voi e con i vostri Padri della perdita del vostro rinomato e santo Fondatore. La nuova mi sopraggiunse improvvisa e intimamente mi commosse, poiché, sebbene egli appartenesse al vostro Istituto specialmente, un uomo come lui, fino a tanto che rimaneva in terra, era una proprietà di tutta la Chiesa. Io temo che le tribolazioni sofferte gli abbiano abbreviato la vita. Ieri mattina ho celebrato una Messa da morto per lui: spero che egli non si dimenticherà di me, appena sarà giunto in cielo, quantunque ben possiamo credere che egli vi sia già pervenuto» («Lettera di Enrico Newman al Padre G.B. Pagani», 10 luglio 1855, in Vita di A. Rosmini, a cura di Guido Rossi, volume ii, 1959). «Per parte mia devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri» (dai Discorsi di san Bernardo abate).

di Roberto Cutaia