· Città del Vaticano ·

Il giudice Roberto Di Bella, «ladro di ragazzini» a fin di bene

Liberi di scegliere

Ralph De Jongh, «Is the Road to Freedom in your Soul?» (2019, particolare)
11 agosto 2020

Dalla dolorosa certezza di un destino ineluttabile alla gioia della rinascita. Liberi di scegliere è la storia vera di un giudice coraggioso e illuminato; di donne d’onore uscite dal silenzio e rinate nel loro ruolo di madri; di tanti ragazzi e ragazze che ce l’hanno fatta a liberarsi dalle catene di una cultura mafiosa che non hanno scelto ma ereditato. Tutti i protagonisti del libro, scritto da Roberto Di Bella con Monica Zapelli ed edito da Rizzoli (Milano, 2019, pagine 256, euro 18) il giudice, le madri, i ragazzi, sono accomunati dalla stessa condizione: hanno messo in discussione il loro passato e le loro certezze per incamminarsi lungo la strada impervia e salvifica del cambiamento.

Il giudice. È l’estate del 1992, la stagione delle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Roberto Di Bella è un giovane magistrato siciliano assegnato al Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria: rigore, sangue freddo e riservatezza sono i tratti che lo contraddistinguono nella sua nuova veste di giudice. Ha un brillante percorso di studi alle spalle, ma presto si scopre impreparato ad affrontare il fenomeno criminale della ‘ndrangheta, tanto sono assurdi e indicibili gli orrori perpetrati dai clan. È un uomo di Stato, deciso a dare alla legge un’anima, ma è anche un uomo che ha paura. Sono anni delicati quelli che segnano l’inizio della sua carriera in Calabria: il capoluogo reggino è appena uscito dalla cosiddetta “seconda guerra di ‘ndrangheta”, un feroce scontro tra cosche che in meno di dieci anni ha lasciato sul campo più di settecento vittime. Tuttavia, il peggio per quei luoghi non è ancora alle spalle: intimidazioni, traffico di armi e di droga, omicidi, attentati alle forze dell’ordine continuano a costituire una minaccia per la legalità e la convivenza democratica. Lo Stato non c’è, lo Stato è la ‘ndrangheta. Ma c’è una ferita che duole più di tutte e pesa come un macigno sulla coscienza civile: il coinvolgimento dei bambini — nel duplice ruolo di vittime e carnefici — nelle faide di sangue. Il giudice Di Bella in venticinque anni di carriera processa prima i padri, poi i loro ragazzi. Mentre le madri, impotenti “vedove bianche”, generano e crescono figli senza futuro, in un drammatico circo dell’eterno ritorno.

Le donne. Il riscatto dei minori non sarebbe stato possibile senza la “conversione” delle loro madri. Il giudice racconta la terribile fine di donne ribelli, punite con la morte per aver sfidato, violandoli, i codici della ‘ndrangheta. Teresa perde la vita a 31 anni colpevole di aver tradito la sua gente: decide di diventare testimone di giustizia, vive in una località protetta, ma per amore dei tre figli sceglie di tornare in Calabria. Viene trovata esanime nel bagno di casa dei suoi genitori dopo aver ingerito (probabilmente istigata dai suoi stessi familiari) un litro di acido muriatico. Antonia, una vita di privazioni e vessazioni, un marito in carcere, si innamora di un ragazzo che per la prima volta la tratta con rispetto. Ma i tradimenti, negli ambienti mafiosi, si lavano con il sangue. A salvarle la vita è l’arresto disposto dalla Procura antimafia di Reggio Calabria per concorso in associazione mafiosa: in carcere comprende che la vera prigione è fuori, le sbarre sono la mentalità mafiosa in cui è cresciuta e non vuole che i figli facciano la stessa fine. Così anche Antonia decide di collaborare con la giustizia e di lasciare la Calabria. Ma a differenza di Teresa porta con sé i suoi bambini, per liberarli, per salvarli. È il 2011. Per il giudice Di Bella — nel frattempo diventato presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria — qualcosa inizia a cambiare: «Due donne, cresciute in potenti famiglie di ‘ndrangheta, avevano deciso di collaborare con la giustizia. Nella forza di quelle madri che in totale solitudine avevano osato sfidare le regole del loro mondo c’era il segnale, forte, deciso di una nuova primavera».

I minori. Chi non ha mai incrociato e sostenuto il loro sguardo farà fatica a capirne il profilo. A dispetto dell’età non sembrano bambini. Nessuna traccia di innocenza è ravvisabile nei loro occhi. Parlano come persone adulte, assumono l’atteggiamento di sfida delle persone adulte, fanno paura come le persone adulte. Uccidono. Muoiono come gli adulti. Sono le vittime sacrificali del sistema ‘ndrangheta. «I loro ragazzi — scrive il giudice — non sembravano ragazzi. Avevano tutto sotto controllo, il dolore e la paura, l’ansia e la ferocia. Non provavano emozioni. Non avevano timore per le conseguenze dei loro gesti o rimpianto per essersi bruciati un pezzo di vita». Salvatore, Rocco, Michele: le loro storie entrano negli uffici del Tribunale dei minorenni e lasciano il segno nella memoria del giudice. Sono giovani vite da proteggere, da tutelare, e la giustizia fa quel che può. Di Bella lavora con scrupolo e abnegazione. Si indigna, lotta per riaffermare lo stato di diritto in una terra di frontiera, a rischio della propria vita. Il risultato? A distanza di pochi anni, Salvatore finisce all’ergastolo, in regime di 41 bis. Rocco e Michele muoiono crivellati da decine di colpi di arma da fuoco. E come la loro, cento altre storie. Tutte con lo stesso inesorabile epilogo: carcere duro o morte.

Come salvarli? Il giudice Di Bella si rende conto che malgrado gli sforzi profusi dal Tribunale e dai servizi sociali, il destino dei bambini della ‘ndrangheta non cambia. Un tarlo inizia lentamente a divorarlo: forse non si fa il possibile per salvare i giovani come loro. «E tu che cosa hai fatto?». Da questa domanda — violenta, terribile, inchiodante — nasce la coraggiosa scelta di essere un giudice diverso, di credere che dall’altra parte non ci sono criminali irrecuperabili ma ragazzi infelici ancora inconsapevoli di essere “liberi di scegliere”. Ad avviso del giudice c’è una sola soluzione (e la mette in pratica): allontanarli dalla Calabria e dalle dinamiche criminali delle loro famiglie.

Un provvedimento ardito che suscita critiche da più parti. Sono mesi di grande sofferenza e di tormento per il magistrato. Viene accusato di rubare i bambini ai loro genitori, di “deportazioni” di minori, di non contrastare il fenomeno mafioso con iniziative di risanamento dell’ambiente in cui sono cresciuti, ma di privarli del diritto naturale agli affetti della famiglia. Gli attacchi della stampa sono feroci e ingenerosi. E lui ne resta turbato, avvilito, pensa finanche di tornare sui sui passi, ma non smette di interrogarsi: «Avevo provato a muovermi nei perimetri delle azioni tradizionali e avevo fallito. I ragazzi che avevo giudicato avevano avuto destini crudeli e tutti già drammaticamente prevedibili. Dovevo assumermi il rischio e la responsabilità di scoprire un’altra strada». Questa strada, intrapresa coraggiosamente malgrado gli ostracismi, lo porterà lontano. Porterà lontano i suoi ragazzi dalla Calabria, anche grazie al sostegno delle loro madri, e molti avranno finalmente la loro chance di salvezza.

Il progetto Liberi di scegliere (che ha anche ispirato una fiction della Rai) prevede la realizzazione di pool educativi antimafia composti da giudici, assistenti sociali, strutture comunitarie, famiglie che perseguono l’obiettivo di indirizzare i giovani in un’ottica di affrancamento dalla cultura malavitosa, verso il raggiungimento di un’autonomia esistenziale e lavorativa. I numeri parlano chiaro: dal 2017 a oggi, il contestato protocollo (diventato governativo) ha permesso a circa sessanta ragazzi e ai loro familiari anche se detenuti di sperimentare nuovi orizzonti di vita. E parlano chiaro soprattutto le testimonianze di questi figli speciali — le cui storie di rinascita sono raccontate nel libro — ai quali al momento giusto, non importa il dove, è stata tesa una mano.

di Alessandra Moraca