· Città del Vaticano ·

Colloquio con padre Vito Nardin, preposito generale dei rosminiani, sul male nel mondo

I flagelli quotidiani e la via della salvezza

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03 agosto 2020

È intitolato «Lezioni di Teodicea. Dio, il male e il dolore innocente», ed è il tema che illustra quattro lezioni in videoconferenza sulla piattaforma Webex e in diretta streaming su Facebook, dal 25 al 28 agosto (dalle ore 18 alle 19), che il Centro internazionale di studi rosminiani di Stresa, in collaborazione con la Pontificia università Lateranense, propone come segno di continuazione dei simposi dedicati al roveretano, sospesi quest’anno a causa della pandemia. La partecipazione, libera e gratuita, sarà possibile tramite l’iscrizione, entro il 10 agosto, all’indirizzo simposi.rosminiani@rosmini.it. Il teologo Giuseppe Lorizio terrà la lezione inaugurale su «Ateismo tragico e giustizia divina», intervenendo anche il 27 agosto con «La teodicea ieri e oggi. La banale tragicità del male». «La “Teodicea” di Antonio Rosmini» è invece la lezione del direttore del Centro internazionale di studi rosminiani, Umberto Muratore, prevista per il 26 agosto. Il ciclo di incontri sarà concluso dal preposito generale dei rosminiani, intervistato in questa pagina, che affronterà l’argomento «Per ogni male la cura di Dio».

In che cosa consiste il male del mondo? La storia dell’umanità straripa di ingiustizie, misfatti, nefandezze, crudeltà, barbarie, tutte situazioni che sono nel mondo ma che si radicano, si danno e si annidano nell’uomo. Lo richiama meritoriamente il concilio Vaticano II, nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes quando afferma: «Gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo». Ne parla in questa intervista a «L’Osservatore Romano» il preposito generale dell’Istituto della Carità (rosminiani), padre Vito Nardin, che interverrà al ciclo di lezioni dedicati alla Teodicea di Rosmini.

Nel Vangelo secondo Marco, Gesù dice: «Sono le cose che escono dall’uomo a contaminarlo». Da dove viene il male?

Gesù dà la risposta giusta e completa alla folla di allora e all’uomo di ogni luogo e tempo. Giusta, perché l’uomo ha in sé il virus che causa il male di cui si lamenta. Davanti alla sofferenza si tende ad attribuirne la causa e la responsabilità ad altri. Ė completa, perché esclude che ci sia un’altra origine, ed enumera, viceversa, ben dodici pandemie umane. Papa Francesco ne addita anche altre: «la fame, la guerra, i bambini senza educazione, l’egoismo indifferente». Inoltre, Gesù rassicura che il Padre interviene, attraverso il Figlio povero per scelta, “flagellato” per amore dei suoi che non l’hanno accolto. L’uomo non è solo davanti a qualsiasi male, perché Gesù stesso è il “Flagellato” che prende su di sé tutti i flagelli, anche quello attuale.

Per questo Rosmini nella «Teodicea» (n. 195) scrive «il subietto del male sono le creature limitate». Prova che il male nel mondo è determinato dalla finitudine dell’uomo?

Per ogni evento occorre ricercare e identificare la causa. La frase di Rosmini è una conferma di quella del Vangelo di Marco, con termini differenti. “Subietto” significa “primo” in senso assoluto, che esclude un altro “primo” generativo o sorgivo. Ogni figlio ha una madre, quella sola. Non si può scaldare il fuoco, né bagnare l’acqua. Se l’uomo è creatura di Dio che è il Bene, non può venire da lui il male, ma dalle creature per «la loro limitazione o fallacità. Sarebbe assurdo pensarle prive di essa, perché sarebbero infinite, come il Creatore» (ivi).

La pandemia di questi mesi ha riaperto un tema assai caro all’uomo di ogni tempo. Come si coniuga esistenza di Dio e male nel mondo?

La riapertura di questo tema è stata imprevista e improvvisa. Per circa settanta anni siamo vissuti in un periodo di generale crescita economica e sociale — non accompagnata da una proporzionata crescita spirituale — lasciando alle spalle situazioni di vari tipi di malattie, povertà, emigrazione. Ora siamo toccati sul vivo, come un mal di denti intollerabile. Non è, purtroppo, un fatto nuovo. Cento anni fa il problema era lo stesso e anche la domanda su Dio. Se molta gente ha continuato a credere in Dio, è segno che una risposta l’hanno trovata. Anche ora, molti medici, infermieri, volontari, politici, sacerdoti che hanno dato il meglio, l’hanno fatto non contro Dio o senza Dio. Inoltre, oggi abbiamo più mezzi per reagire e per curare, anche per merito della scienza. Anche un “governo senza orgoglio”, — espressione di Rosmini — senza rinunciare ad esigere la necessaria disciplina può fare molto.

E questo perché, come Leibniz, anche Rosmini afferma che il mondo creato da Dio è «l’ottimo fra i possibili»?

Rosmini si propone di conciliare le sentenze, il più possibile. Leibniz è il più citato, dopo sant’Agostino e san Tommaso. Le riflessioni rosminiane sono rivolte a dimostrare che l’umanità è amata infinitamente da Dio che è Provvidenza. Il fine che Dio si è proposto si realizza principalmente nell’incarnazione. In Cristo sono accumulati «tutti i beni, i doni e le grazie» per la salvezza dell’umanità. La stessa legge di accumulo, fatte le debite proporzioni, vale per i santi. Anche se pochi rispetto ad una popolazione, possono salvare gli altri (cfr. Genesi, 18). Il mondo creato è il migliore non perché ci si sta meglio di altri possibili, ma perché produce il massimo risultato di bene.

Alla stessa conclusione non era arrivato però un contemporaneo di Rosmini, Giacomo Leopardi. Rispetto a quella cultura fiancheggiata da Leopardi che accantonava Dio dal mondo — così in un certo senso anche Cartesio — Rosmini polemizzò con forza. Non crede che nei tempi in cui viviamo prevalga la logica del recanatese?

Il poeta di Recanati e il filosofo di Rovereto erano contemporanei. Hanno avuto in partenza condizioni simili dalla famiglia e dall’ambiente sociale. Le posizioni sono poi andate su linee direttrici sempre più lontane. Per Rosmini metterei in conto due importanti opere, note da allora a tutti gli italiani e non solo, che hanno consolidato la sua fiducia nella Provvidenza. Nel 1826 aveva ricevuto una delle prime copie de I Promessi Sposi, ove la Provvidenza è la guida delle vicende. Proprio in quel tempo egli scrive i primi due libri che formeranno la Teodicea insieme al terzo ultimato nel 1845. Successivamente, dedica l’intera giornata del 21 marzo 1833 alla lettura de Le mie prigioni di Silvio Pellico, pubblicato da poco, ove brilla la sua fiducia nella Provvidenza e i tesori spirituali che si ricavano dal dolore.

Dunque la «Teodicea», l’opera datata 1845 di Rosmini per l’attualità (emergenza covid-19, guerre, disastri, eccetera) si presenta come un ottimo strumento per una ermeneutica e comprensione del male?

Molti lettori di questa e altre opere rosminiane ne riconoscono gli influssi benefici. Padre Clemente Rebora, poeta rosminiano, partecipe della stessa aridità di Leopardi, fino all’età di 40 anni è un «carro vuoto sul binario morto». Coinvolto direttamente nelle tragedie della prima guerra mondiale ne descrive la tragedia, ne subisce le conseguenze per molto tempo. Finalmente arriva a leggere Rosmini, «genio sovrano, splendente di umano e divino sapere». Legge la Teodicea, opera tesa a «difendere e lumeggiare il disegno e il governo e le arcane vie, amabili e adorabili sempre, del Signore». Beato chi arriva a vedere «Gesù amore, che spreme il suo Sangue per noi!». A capire «che cosa siano i flagelli del Flagellato per la nostra salvezza e vita e risurrezione!».

Anche l’uomo del terzo millennio, così come avvenne per Giobbe che non è punito ma provato da Dio, nella fede, è (ri)chiamato nella coscienza a una fedeltà a Dio?

“La pazienza di Giobbe” è un detto entrato nel linguaggio popolare. Quel messaggio, quel libro della Bibbia è sublime e immortale. Non teme il confronto letterario con la tragedia greca. Il valore è ben maggiore se si considera che in questa le divinità rinunciano a dare risposte, delegando ateisticamente il fato ad esigere l’assenso dell’uomo davanti a terribili tragedie familiari e sociali. Una delle prove più difficili per l’uomo di tutti i tempi è il dolore innocente. Rosmini mostra che la fedeltà eroica di Gesù innocente è data anche ai suoi discepoli. Potremmo chiamarla “resilienza”, un termine attuale in questo sforzo di reagire alla pandemia. Non si può realizzare la “città di Dio” senza sforzo.

E per concludere: nel «Gorgia» di Platone, Socrate sottolinea: «E i sapienti dicono, o Callicle, che cielo e terra, dèi e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza, e dalla giustizia … o amico, ordine, e non invece, disordine o dissolutezza». È tempo di ripensare a una filosofia e teologia in chiave metafisica autentica/pura?

La coralità interdisciplinare dei “sapienti” è raccomandata da Papa Francesco nella costituzione Veritatis gaudium, ove Rosmini è opportunamente citato. Non trovo augurio migliore che, come già auspicato da san Giovanni Paolo II nella Fides et ratio, 74, cresca «il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio». Ė il momento, come suggerito da Rebora, di inserire nel coro anche Rosmini, come «una sicura e fedele e orientante voce attuale della perenne dottrina della Chiesa, e della sua incomparabile ragionevolezza vittoriosa, davanti a tutte le crescenti esigenze attuazioni umane».

di Roberto Cutaia