· Città del Vaticano ·

Aperture, strategie di sviluppo e false partenze

Democrazia e partecipazione in Africa

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25 agosto 2020

Ogni volta che si verifica in Africa un colpo di stato, si accende il dibattito sull’effettiva capacità delle istituzioni statuali locali di rispondere adeguatamente ai bisogni di sicurezza e di benessere delle proprie popolazioni. È il caso del golpe militare avvenuto la scorsa settimana in Mali che ha portato alla destituzione del presidente Ibrahim Boubacar Keita e del suo governo guidato dal primo ministro Boubou Cissé. Stando a fonti locali, il colpo di stato sarebbe avvenuto a seguito delle crescenti proteste contro Keita, accusato di avere manipolato i risultati delle ultime elezioni parlamentari, tenute a marzo. Inoltre, sullo sfondo vi sarebbero le frustrazioni e i malcontenti nei confronti dell’esecutivo nella lotta contro la corruzione e le varie formazioni islamiste attive presenti nel nord del paese, particolarmente nella tormentata regione dell’Azawad.

Al di là delle valutazioni di merito sulle responsabilità della classe dirigente maliana e sulla reale opportunità di defenestrarla con un intervento armato, rimane aperto il giudizio sulla effettiva traiettoria intrapresa da alcuni paesi in termini di sviluppo democratico. Anzitutto occorre rilevare che rispetto al passato vi è stata una significativa diminuzione dei golpe nel continente africano: dal 1950 vi sono stati oltre 200 colpi di stato. Di questi circa un centinaio sono stati quelli riusciti. E se tra il 1960 e il 1999 ogni decennio contava tra i 39 e i 42 tentativi di golpe, dal 2000 il loro numero è andato diminuendo a 22, mentre nel decennio che si sta concludendo sono stati 17. Da rilevare che una delle ragioni per cui vi è stata in questi anni una diminuzione dei golpe è dovuta alla maggiore efficacia delle istituzioni africane sia a livello continentale come l’Unione africana (Ua), che regionale come la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas).

Questi organismi hanno infatti adottato degli strumenti politici e legislativi che consentono loro di reagire in modo fulmineo agli eventi destabilizzanti. Non è un caso se mercoledì scorso, a seguito del golpe in Mali, il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana abbia twittato: «L’Unione africana sospende il Mali dall’Unione africana fino al ripristino dell’ordine costituzionale e chiede il rilascio del presidente Ibrahim Boubacar Keita, il primo ministro e altri funzionari governativi detenuti con la forza dall’esercito». Il tweet è stato poi condiviso anche dal presidente della Commissione dell’Unione africana Moussa Faki Mahamat.

È bene rammentare che un colpo di stato militare (in inglese military coup e in francese coup d’ètat) avviene quando l’esercito tenta di rovesciare il governo in carica, determinando anche la caduta degli organi legislativi, che solitamente, ma non sempre, ospitano in maggioranza i rappresentanti dell’esecutivo in carica. In sostanza si tratta, dunque, di un’illegittima presa di potere, di solito compiuta dai militari o da altre élite all’interno dell’apparato statale allo scopo, appunto, di spodestare l’ordine e il governo costituito. Tentativo che per dirsi riuscito — secondo due tra i massimi esperti della materia, Jonathan Powell (University of Central Florida) e Clayton Thyne (University of Kentucky) — deve durare per almeno sette giorni. La fenomenologia di un colpo di stato è molto variegata. In alcuni casi è volta a rovesciare il sistema costituzionale di uno stato per salvaguardare gli interessi lesi dei cospiratori, ad esempio, con la diminuzione dei fondi governativi stanziati a loro favore. Oppure, l’esercito può decidere di mobilitarsi in difesa della popolazione. Se il governo in carica agisce in modo da impedire il corretto funzionamento della vita costituzionale, abusando dei poteri ottenuti democraticamente, i militari intervengono per spodestarlo. In questo caso, solitamente, il tempo di occupazione del potere da parte dei golpisti sarà limitato al periodo necessario a ripristinare il normale ordine democratico.

Secondo uno studio dell’African Development Bank, nel corso degli ultimi sessant’anni la zona del continente africano che ha registrato il numero maggiore di golpe è stata l’Africa Occidentale, seguita dall’Africa Centrale e Orientale e in misura più contenuta dall’Africa Australe, con alcuni episodi. Una cosa è certa: come ben evidenziato da Alessandro Pellegata, in un articolo pubblicato sul giornale elettronico dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/africa-quanta-democrazia-sud-del-sahara-25863), tra il 1960 e il 1990 i cambiamenti di leadership di tipo elettorale avvenuti nell’Africa subsahariana sono stati «un’estrema rarità». In tutto il subcontinente si sono avuti in quel periodo «solo sei casi di successione elettorale e tre casi di alternanza al governo, due dei quali peraltro concentrati nei primi anni post-indipendenza».

A partire però dagli anni Novanta, il panorama è cambiato quando la maggior parte dei regimi politici si è aperto al multipartitismo. «Sia il numero di successioni che quello di alternanze — scrive Pellegata — è decisamente cresciuto rimanendo stabilmente superiore ai dieci episodi in ognuno dei tre decenni successivi». Tra i casi particolarmente significativi in cui leader autoritari di lungo corso si candidarono alle prime elezioni multipartitiche tenutesi nei loro paesi, persero e accettarono di farsi da parte, è importante segnalare il Benin e il Malawi dove, rispettivamente Mathieu Kérékou e Hastings Banda accettarono il verdetto delle urne. Il dato sulle alternanze al governo — sempre secondo Pellegata — si è ulteriormente consolidato nel decennio in corso con un “record” di 21 alternanze; un numero che potrebbe crescere ancora da qui a dicembre.

Rimane il fatto, come rileva il congolese Mughanda Muhindo, esperto di relazioni internazionali, che «sono ancora pochi gli analisti che pongono la domanda di un nuovo modello di Stato, ispirato alle tradizioni africane.

Eppure questa è la conditio sine qua non per fare uscire lo stato africano dalla sua crisi ontologica». Egli ritiene che senza questo rinnovamento, non vi sarà in Africa né soddisfacente stato di diritto, né sviluppo durevole. Mughanda Muhindo auspica in particolare il ricorso allo «stato multinazionale», che preesisteva alla colonizzazione e che continua a sopravvivere anche se in maniera informale. «In esso, all’opposto dello “stato-nazione” che ha il monopolio della produzione del diritto, c’erano spazi autonomi di produzione del diritto: lo spazio statale (luogo di produzione del diritto generale) e lo spazio nazionale o etnico (luogo di produzione del diritto particolare)».

Questo rinnovamento, secondo lo studioso congolese, è necessario per affermare l’ordine sociale e politico che s’intende promuovere, rispondendo ai bisogni di sicurezza e di benessere delle proprie popolazioni.

Non v’è dubbio, comunque, soprattutto nelle aree d’instabilità politica — e la fascia saheliana dove è collocato il Mali è un tipico esempio — s’impone l’esigenza di una radicale riforma della governance delle risorse — energetiche in primis — in senso più equo ed inclusivo.

È indubbio che gli interessi stranieri, spesso contrapposti e predatori, nello sfruttamento delle commodity africane, acuiscono la destabilizzazione, unitamente all’insorgenza del terrorismo jihadista.

Una delle maggiori sfide, certamente, riguarda il coinvolgimento della società civile a livello continentale, per poter giocare un ruolo più incisivo nei processi di decisione politica, economica e sociale, dando voce alle fasce di popolazione più escluse e vulnerabili, lottando contro la fame e l’esclusione sociale.

di Giulio Albanese