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Colei che ha cambiato il nostro modo di guardare ai bambini

Maria Montessori
31 agosto 2020

Centocinquant’anni fa nasceva Maria Montessori


Il 3 ottobre di trent’anni fa, sostituendo due grandi della patria — Giuseppe Verdi e Marco Polo — una donna faceva capolino sulla banconota italiana da mille lire. Sul fronte vi era raffigurato il suo volto, sul retro una bambina e un bambino intenti a scrivere. Era la prima volta (e sarebbe stata anche l’ultima) che una figura femminile finiva su una banconota italiana. Ma chi era davvero costei? E qual è il vero significato dell’aggettivo derivato dal suo cognome?

Da un lato va di moda, ripetuto come uno slogan attira-clienti per vendere prodotti e servizi dedicati all’infanzia. Dall’altro è diventato sinonimo di anarchia e completa assenza di regole: fatto sta che oggi il vero significato dell’aggettivo “montessoriano” è sconosciuto ai più. Come pure è sconosciuta la vita della donna che questo metodo l’ha inventato. Una donna complessa, geniale, di difficile catalogazione, di cui quest’anno cade il centocinquantesimo dalla nascita.

Chi fu davvero Maria Montessori? È ora Cristina De Stefano a tratteggiare un ritratto che — tra luci e ombre senza preconcetti o sconti — presenta la pedagogista e neuropsichiatra infantile che ha cambiato per sempre il nostro modo di guardare i bambini. Attraverso testimonianze dirette e carteggi inediti, infatti, Il bambino è maestro. Vita di Maria Montessori (Milano, Rizzoli 2020, pagine 384, euro 20) presenta la studentessa, la scienziata, la donna e soprattutto la grande sperimentatrice che ha creduto nell’osservazione, e nel proprio intuito. Idealista ma molto attenta a tutelare il suo materiale di lavoro con brevetti internazionali, curiosa ma con la tentazione di voler gestire tutto in prima persona, se per alcuni è profetessa di una nuova idea di umanità, per altri è invece una tiranna e un’opportunista. «Maria Montessori — scrive De Stefano — era un genio, e raramente i geni sono persone facili». Autoritaria, con determinazione, carisma e personalità fuori dal comune, ha anche fondato un’impresa economica, «cosa che in tanti non le perdonano», scrive De Stefano, che qui — dopo Oriana. Una donna (Rizzoli 2013) dedicato alla Fallaci — conferma la capacità di entrare nel personaggio senza farsene abbagliare.

«Questa donna nata nell’Ottocento dice cose che disturbano ancora oggi, nonostante molte delle sue idee siano (…) entrate a far parte della logica comune». Perché ciò che Maria Montessori ha fatto di davvero rivoluzionario è stato chiedere agli adulti di abbandonare quell’atteggiamento di forza e di superiorità che per secoli hanno assunto rispetto ai bambini.

Nasce a Chiaravalle il 31 agosto 1870, unica figlia di genitori di formazione cattolica e liberal-risorgimentale. Il padre Alessandro è funzionario al ministero delle Finanze; la madre, Renilde Stoppani, proveniente da una famiglia marchigiana di piccoli proprietari terrieri, è parente dell’abate Antonio Stoppani, figura di spicco del cattolicesimo conciliatorista e filorosminiano. Il lavoro del padre porta la famiglia prima a Firenze e poi nel 1875 definitivamente a Roma, dove Maria trascorre infanzia e giovinezza. Coltivando il progetto di diventare ingegnere, studia prima alla scuola tecnica Michelangelo Buonarroti e poi all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci. Nel 1890, invece, Maria si iscrive alla facoltà di scienze passando, due anni dopo, a medicina.

Sono tante le difficoltà per una ragazza che si muove in un ambito esclusivamente maschile. Chi la sostiene sempre, con grande forza, in un percorso inusuale per una ragazza del suo tempo è Renilde. De Stefano racconta molti episodi di questa alleanza madre-figlia fatta di grande sostengo e piccoli gesti. Qualche volta, ad esempio, Montessori porta con sé all’università un mazzolino di fiori, che la madre le ha fatto trovare insieme alla colazione. «In facoltà le cose non sono sempre facili. Deve farsi accettare dai compagni, nascondendosi dietro un’aria feroce. (...) È in difficoltà fin dal primo giorno. Per quanto determinata, è pur sempre una ragazza del suo tempo». È innegabile «la sua condizione di studentessa in una facoltà maschile, di giovane donna che si avventura in territori sconosciuti, dove niente è previsto per lei. Il fatto che riesca comunque a superare l’ostacolo dimostra la sua determinazione fortissima».

Con il tempo Montessori si divide tra lavoro in ospedale, impegno femminista e volontariato (attraverso esso è entrata in contatto con le femministe che a Roma sono assai attive in ambito sociale). Ogni giorno, uscita dalla corsia, va tra i diseredati. «La sua attenzione per l’infanzia nasce qui, davanti a quei bambini poveri, che sono gli ultimi della società — scrive De Stefano —. Un bambino su due non arriva ai 5 anni, e chi ce la fa è messo subito al lavoro per sostenere la famiglia. (…) Maria Montessori è scandalizzata da quello che vede. Ben presto metterà la sua indignazione al servizio della pedagogia. In un mondo dove nei primi anni di vita un bambino deve fondamentalmente cercare di non morire, proporrà un’educazione che inizi ben prima della scuola dell’obbligo e che valorizzi quelle piccole menti di cui nessuno si cura. Ha imparato la lezione dei suoi professori, che in quegli anni di attivismo sociale sono spesso più simili a missionari che a medici».

Le prime esperienze nel campo le fa accanto al collega (e amore segreto a lungo ricambiato) Giuseppe Montesano che nel 1898 viene nominato primario del manicomio di Roma. Montessori lo accompagna nelle prime ricognizioni e qui ha l’intuizione capace di trasformare il modo di approcciare i bambini.

Durante una di queste visite, infatti, scopre i piccoli che vivono nel manicomio. Sono i cosiddetti “frenastenici”, categoria molto ampia che include ritardo mentale, cecità, mutismo, sordità, epilessia, paralisi, autismo, rachitismo, danni e disturbi dovuti alla malnutrizione. «Considerati incurabili e quindi rinchiusi a vita, vestiti con un grembiule di tela grezza, sporchi, inselvatichiti, sono forse l’aspetto più terribile di quel luogo spaventoso. Maria capisce di aver trovato qualcosa per cui battersi». Un giorno una delle inservienti si sfoga con lei: appena finito di mangiare i bambini si gettano per terra e arraffano le briciole di pane. «Maria guarda intorno a sé: lo stanzone è completamente vuoto, un grande spazio spoglio e freddo. E se non fosse desiderio di mangiare, quanto di poter interagire con qualcosa? Dopotutto, quegli avanzi di pane sono le uniche “cose” a loro disposizione. Forse non è fame di cibo, rifletti Maria, ma di esperienza». Montessori osserva, studia, si confronta e parte per Londra e Parigi per approfondire e sperimentare le tecniche ideate da Édouard Séguin e Jean-Marc Gaspard Itard per l’educazione dei bambini con deficit.

I piccoli sono ormai il centro del suo interesse di ricerca: il cervello dei bambini e le sue incredibili potenzialità resteranno per sempre il centro dei suoi studi. E per sempre, pur di dedicarsi ai bambini, Montessori non avrà difficoltà a cercare sostengo da chiunque, senza preclusioni politiche (da qui l’accusa di simpatia o connivenza con il fascismo, che comunque il 12 ottobre 1934 chiuderà le scuole montessoriane in Italia). Se ha in mente un obiettivo, Montessori lo deve perseguire.

E per farlo, è necessario che il pubblico la conosca. Inizia a collaborare con un giornale di pedagogia; uno dei primi scritti è incentrato sui bambini rifiutati dalla scuola, «che finiscono con il vagabondare nelle strade e diventare delinquenti. L’articolo è un atto d’accusa contro il governo, che pensa di risolvere il problema dell’infanzia in difficoltà nascondendola alla vista. Maria considera questa politica doppiamente inaccettabile, per motivi etici e per motivi scientifici».

I bambini, e il bambino. Il suo. Nel marzo 1898, in gran segreto, Montessori partorisce un bambino, concepito con Montesano. Non può riconoscerlo né tenerlo con sé: il piccolo viene affidato a una famiglia di Vicovaro. Il dolore per la separazione è enorme, vederlo crescere da lontano è una sofferenza grandissima che la consuma, al punto che quando Mario ha 14 anni e lei è ormai famosa, sale in macchina e va a prenderlo al collegio in cui studia. È l’inizio di un rapporto bellissimo.

Intanto però, a soli sei mesi dal parto, Montessori fa la sua prima apparizione pubblica: dal palco del Congresso pedagogico di Torino chiede allo Stato di creare delle classi speciali nelle scuole elementari e dei corsi per formare insegnanti specializzati. La mozione viene approvata all’unanimità, a dimostrazione della capacità di questa donna di centrare il problema e portare l’ascoltatore dalla sua parte.

Un momento decisivo avviene il 6 gennaio 1907: si inaugura la Casa dei bambini in un edificio popolare a via dei Marsi, nel quartiere San Lorenzo di Roma, per desiderio di Edoardo Talamo, direttore dell’Istituto dei Beni Stabili. La sua amica Olga Lodi, invitata a visitare la struttura, esclamerà: «Ma è una casa dei bambini!», inventando un nome che diventerà sinonimo di metodo Montessori. All’epoca San Lorenzo è uno dei quartieri più malfamati di Roma, che però Montessori conosce molto bene avendo cominciato a lavorarci fin da studentessa negli ambulatori popolari, accogliendo i primi bambini tolti dal manicomio, curando a domicilio tanti poveri e tenendo corsi gratuiti alla Scuola di educazione civile per gli operai.

Due anni dopo, ormai nota in Italia, pubblica Il metodo della pedagogia scientifica, in cui per la prima volta viene presentata un’immagine diversa e positiva del bambino. Il libro riceve un’ottima accoglienza e dà il via a un vero e proprio pellegrinaggio scientifico che la porterà in tutto il mondo a seguire la nascita delle sue scuole. Preparando così una nuova generazione di insegnanti e genitori. Nel 1915 è a San Francisco per l’Esposizione Universale: la relazione Learning and Developmental Freedom of the Child consacra la diffusione del metodo nel mondo.

Il bambino «rivela se stesso — scrive Montessori — solo quando è lasciato libero di esprimersi, non quando viene coartato da qualche schema educativo o da una disciplina puramente esteriore. Così impara ad autoregolarsi essendo egli per sua natura serio, disciplinato, curioso e amante dell’ordine; messo a contatto con i materiali pedagogici adatti e guidato da un educatore umile e discreto, il bambino è in grado di autoeducarsi e di dispiegare le sue potenzialità, andando così a formare un'umanità libera e affratellata».

Nelle scuole montessori ogni dettaglio è pensato per favorire l’autonomia del bambino: grembiuli con i bottoni davanti, in modo che possano allacciarli da soli; mobili piccoli e leggeri, così da spostarli senza aiuto. «Noi non sappiamo “immaginare” cose che non cadano realmente sotto i nostri sensi. Anche per questo, in classe, gli oggetti devono essere a misura dei bambini e della loro forza… Attaccapanni a muro a portata di mano; spazzole che le loro mani possano abbracciare; saponette che stiano nel cavo della mano… Catinelle piccole perché abbiano la forza di vuotarle; scope col manico breve, liscio e leggero; vestiti facili da togliere e indossare (…) credenze basse; serrature facili da maneggiare; cassetti e sportelli leggeri da aprirsi e chiudersi… Un ambiente che invita all’attività e nel quale i bambini a poco a poco, instancabilmente perfezionano i propri movimenti». Una delle intuizioni di Montessori, che un secolo dopo sarà confermata dalle scienze cognitive, è che il movimento è parte integrante del processo di apprendimento: i bambini, cioè, imparano muovendosi.

«Il fanciullo è portato a correggersi, a esercitarsi a non urtare, a non rovesciare, a non rompere, raddolcendo sempre più i suoi movimenti e rendendosene a poco a poco padrone. Si abituerà a fare il possibile per non macchiare gli oggetti belli che rallegrano il suo ambiente. È la stessa via per cui, gustato il silenzio e la musica, farà di tutto per non produrre rumori discordanti. Prepariamo un ambiente adatto come si preparerebbe un ramo d’albero in una uccelliera per poi lasciare liberi i bambini ai loro istinti di attività e di imitazione. La scuola deve diventare il luogo dove il bambino può vivere nella sua libertà, non solo quella intima, spirituale, della crescita interiore».

In anni in cui non è scontato esserlo Montessori è anche una pacifista convinta, specie in un’ottica educativa («La vera difesa dei popoli non può poggiare sulle armi: giacché le guerre… non potranno mai assicurare la pace e la prosperità di nessun popolo, finché non si ricorrerà a questo grande armamento della pace che è l’educazione»). Tanto che sulla sua lapide farà incidere: «Io prego i cari bambini che tutto possono di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo». Pace con gli uomini e con il creato: Montessori infatti troverà sempre un conforto immenso nella natura, conforto di cui si fa latrice anche tra i bambini.

Tutto questo lo teorizza perché è un’osservatrice straordinaria, guarda i piccoli per ore e ore, il che ha portato alla rivoluzione avvenuta a San Lorenzo. «Fino a quel momento il bambino è stato considerato un essere passivo, a cui servivano solo cibo, sonno e gioco per passare il tempo e diventare, possibilmente in fretta, un adulto. Maria Montessori è ormai invece convinta che sia una creatura particolare, diversa dall’adulto, per molti aspetti superiore. (…) Oggi sappiamo che il cervello nei primi tre anni di vita ha una capacità di creazione di sinapsi incomparabilmente superiore a quella dell’adulto».

La forza a cui si deve questo nuovo modo di considerare il bambino si deve anche al nuovo sguardo che questa donna mette in campo. Grazie alla sua formazione eclettica, infatti, Montessori guarda al bambino da punti di vista diversi ma, per sua intuizione, complementari. Allo sguardo medico si somma così quello antropologico, pedagogico e religioso. Uno sguardo di cui noi siamo tutti eredi, più o meno consapevoli. Più o meno fedeli.

di Giulia Galeotti