· Città del Vaticano ·

L’assistenza delle Chiese ai migranti nel sud-est asiatico in tempo di pandemia

Chiamati a servire i volti di Cristo

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03 agosto 2020

È una delle emergenze che la diffusione del coronavirus ha acuito: quella della presenza di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Una questione che tocca diversi Stati del sud-est asiatico come Thailandia, Malaysia, Singapore, Myanmar, che già negli anni scorsi si sono ritrovati alle prese con crisi di vario genere, che hanno affrontato, nelle singole nazioni, con politiche e strumenti legislativi spesso improntati alla ghettizzazione e ai respingimenti, se non alla compressione dei diritti fondamentali. In tale scenario si è fatta presente l’azione pastorale delle Chiese locali, che hanno messo in campo programmi di assistenza umanitaria, sostegno economico e sociale, istruzione, consulenza psicologica e anche di formazione e dono dei sacramenti per i rifugiati di religione cristiana.

Uno degli Stati in cui la crisi sanitaria ha contribuito a peggiorare le condizioni dei profughi è la Thailandia. L’approccio delle autorità di migranti e di rifugiati, giunti in gran parte da altri Paesi dell’Asia in cerca di occupazione ha suscitato critiche da parte delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Come segnala l’ong Fortify Righs sono stati in passato frequenti gli abusi su rifugiati e richiedenti asilo, costretti a un regime di reale detenzione, accusati di violare la legge Thai sull’immigrazione. Tra le migliaia di detenuti sparsi in tutto il Paese nelle strutture di detenzione, che continuano a espatriare, si segnalano molti cristiani pakistani il cui unico crimine è il fatto di non essere in possesso di un visto valido per rimanere in Thailandia. I pakistani cristiani che lasciano la loro patria per cercare rifugio nel sud-est asiatico fuggono da persecuzione, minacce e rappresaglie. Anche per i bassi costi del viaggio e per la facilità di ottenere un visto turistico, molti arrivano in Thailandia, ma ben presto il loro sogno svanisce: la Thailandia è uno dei Paesi che non ha firmato la Convenzione sui rifugiati del 1951 né il successivo Protocollo del 1967. Così chi arriva affronta un intricato percorso burocratico e si vede ben presto privato di diritti e protezione. «A questo punto il rifugiato, che ancora ufficialmente non è tale, diventa un illegale e un criminale», spiegano i volontari cattolici thailandesi, parte di una comunità che conta 400.000 fedeli in una nazione con 69 milioni di abitanti, in prevalenza buddisti. Privi di un lavoro legale e dell’assistenza sanitaria, i profughi sono costretti a situazioni di clandestinità, sono vittime di traffici loschi o occupati in condizioni di schiavitù. «Donne e bambini sono imprigionati senza distinzione. Le parrocchie, la gente comune, alcune organizzazioni, portano aiuto e assistenza a persone abbandonate a se stesse», proseguono i volontari. Durante l’emergenza legata al coronavirus un’ondata di commenti xenofobi ha invaso i social media thailandesi, dopo le segnalazioni dello scoppio di focolai di covid-19 nelle strutture di detenzione per immigrati clandestini. In questo scenario, l’organizzazione assistenziale legata all’arcidiocesi di Bangkok ha rafforzato l’opera di sostegno della Chiesa verso migranti e profughi, «persone fragili, bisognose di aiuto, che non hanno voluto lasciare la loro patria, ma sono stati costretti a farlo» a causa di abusi, discriminazioni, ingiustizie e violenze legate a religione, cultura, etnia, ha raccontato il sacerdote di Bangkok padre Sommai Mathurossuwan, responsabile del servizio loro dedicato nell’arcidiocesi.

Anche nella vicina Malaysia, meta di milioni di lavoratori migranti, le autorità hanno adottato un approccio duro nel trattare determinate comunità straniere, con l’obiettivo dichiarato di contenere la diffusione del virus. E così centinaia di migranti e richiedenti asilo sono stati arrestati, e tra loro donne e bambini, in una strategia che, secondo le Nazioni Unite, si rivela controproducente: «La paura dell’arresto e della detenzione spinge queste popolazioni vulnerabili a nascondersi e a non cercare cure, con conseguenze negative per la propria salute e creando ulteriori rischi per la diffusione del covid-19». La gestione del rapporto con i migranti, caratterizzata nei mesi scorsi da deportazioni e arresti, ha visto crescere le intimidazioni ai giornalisti che si sono occupati del caso e suscitato la preoccupazione delle organizzazioni di difesa della libertà di espressione. All’inizio di luglio è stato diffuso in rete il documentario Locked Up in Malaysia Lockdown in cui si documenta l’arresto di migranti privi di documenti durante la pandemia di covid-19, ma le autorità malaysiane hanno respinto le accuse di razzismo e discriminazione. «L’impatto del lockdown e la paura della pandemia hanno causato una crisi umanitaria tra i lavoratori informali, che sono perlopiù migranti stranieri», ha spiegato a «L’Osservatore Romano» il sacerdote gesuita padre Alvin Ng, raccontando l’impegno della commissione per la pastorale dei migranti nell’arcidiocesi di Kuching, che ha coinvolto sacerdoti, religiosi e laici volontari nell’impegno di solidarietà. «Che si tratti di gente del posto o di stranieri, tutti sono il volto di Cristo che siamo chiamati a servire, con la preghiera, con un pensiero, con aiuto finanziario, con un sorriso o il dono di un pacco di cibo o un bicchiere d’acqua, in nome di Dio», ha detto padre Ng, osservando che la comunità cattolica malaysiana, il 4 per cento su 32 milioni di abitanti, in una società multietnica e multireligiosa, intende «fare la propria parte» per il bene comune.

A tal fine, le Chiese locali avvertono che nelle due nazioni confinanti Thailandia e Malaysia, i profughi continuano a rischiare di contrarre il covid-19 in residenze sovraffollate, baraccopoli e centri di detenzione e occorrono, dunque, politiche differenti.

Non è dissimile la situazione a Singapore, dove quasi 25.000 lavoratori migranti, molti dei quali giunti dall’India e dal Bangladesh, sono risultati positivi al coronavirus negli affollati dormitori dove risiedono. La città-stato è fortemente dipendente dalla manodopera straniera, dato che sono 1,4 milioni i lavoratori stranieri impiegati principalmente nell’edilizia, nei lavori manuali e nel servizio domestico. Circa 200.000 immigrati vivono in soli 43 dormitori, in stanze che accolgono fino a 20 persone. Tra i migranti, numerosi sono i cattolici (giunti dalle Filippine e da altri Paesi asiatici) che lavorano come collaboratori domestici, ai quali la Chiesa cattolica di Singapore, con i suoi 300.000 fedeli su 5,5 milioni di abitanti, dedica attenzione e cura pastorale, accompagnandoli anche nel cammino spirituale e organizzando per loro apposite liturgie e il dono dei sacramenti. Alcuni di loro sono impegnati in movimenti ecclesiali come Couples for Christ, o nell’iniziativa pastorale «Abundant and Better Life Abroad», che mira a consentire agli stranieri di condurre una vita prospera e felice, pur se lontano dalla loro patria, incentrata sulla condivisione della parola di Dio, anche in tempo di pandemia.

Un’altra emergenza già in atto, aggravatasi con lo scoppio della pandemia, è quella relativa ai rifugiati rohingya che, in Bangldesh, si ritrovano in un limbo: hanno timore di tornare in Mynamar, ma anche il governo di Dacca non ne promuove la reale integrazione nella società. Oltre un milione di profughi vivono ammassati nelle località di Cox’s Bazar, Kutupalong e Ukhia, in territorio bengalese, al confine orientale con il Myanmar, accampati in estesi campi temporanei poco oltre la frontiera. La Chiesa bengalese, un “piccolo gregge” di 400.000 fedeli in un contesto al 90 per cento islamico, grazie all’impegno della Caritas e con l’aiuto di altre agenzie umanitarie, si prende cura dei rohingya, tanto più nei mesi della crisi legata al coronavirus: da un lato si opera per la prevenzione e per l’informazione sulla malattia, dall’altro si continuano a fornire servizi sociali, di assistenza medica e di istruzione. Infatti, l’assistenza umanitaria finora erogata non prevede di istituire le scuole: il governo di Dacca sembra non voler insegnare agli sfollati la lingua bengalase temendo che, una volta appresa, essi possano facilmente fermarsi e integrarsi nella nazione. È la Chiesa cattolica, allora, insieme con altre associazioni, a organizzare il servizio di istruzione per bambini e giovani nei campi profughi, anche se non si tratta di scuole formalmente riconosciute. La Chiesa locale da tempo chiede «una soluzione globale che non può essere lasciata solo sulle spalle del Bangladesh», ma che coinvolga la comunità internazionale e le Nazioni Unite, grazie a un piano di azione che veda la partnership dei governi e che tuteli pienamente la dignità, la libertà e i fondamentali diritti umani dei rohingya.

Nelle diverse nazioni asiatiche, già alle prese con crisi sociali legate alle ondate migratorie, i frequenti maltrattamenti e abusi sui diritti umani inducono i lavoratori stranieri a languire ai margini della società. Tale esclusione può comportare gravi problemi sociali e anche sanitari, specialmente durante una crisi come l’attuale pandemia. Tra l’altro la maggior parte dei lavoratori migranti proviene da contesti svantaggiati, ha un basso livello di alfabetizzazione e di istruzione e, come ha comunicato di recente l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), è disinformata sul covid-19, a causa delle barriere linguistiche e per la mancanza di un accesso adeguato alla tecnologia digitale. L’azione pastorale e sociale delle comunità cattoliche, in questa cornice, diventa dunque tanto più preziosa e importante, per diffondere una sensibilità intrisa di compassione e di misericordia.

di Paolo Affatato