· Città del Vaticano ·

La missione di monsignor Marengo in Mongolia

Alla Chiesa delle origini

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11 agosto 2020

«È una grazia grande, un ulteriore passo nella chiamata che il Signore ha voluto rivolgermi mandandomi in Mongolia. Essere vescovo qui credo assomigli molto al ministero episcopale della Chiesa delle origini; è molto simile a quello che oggi è la missione in questo paese». Sono le parole piene di commozione di padre Giorgio Marengo, 46 anni, missionario della Consolata nominato da Papa Francesco il 2 aprile scorso prefetto apostolico di Ulaanbaatar e consacrato vescovo sabato 8 agosto nel santuario della Consolata di Torino dal prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, cardinale Luis Antonio Tagle. Atto con il quale si è voluta esprimere una profonda gratitudine alla Consolata, famiglia religiosa fondata dal beato Giuseppe Allamano, per aver inviato i suoi missionari nelle lontane terre della Mongolia.

Padre Giorgio è arrivato lì con i suoi confratelli nel 2003 per assistere la piccola comunità di Arvaiheer, nella regione di Uvurkhangai, con iniziative e attività legate ai bisogni e alle problematiche del luogo: dopo-scuola per i bambini, docce pubbliche, un progetto di artigianato per le donne, il Day care center e un gruppo per il recupero di uomini con problemi di alcolismo. Opera complessa e a volte anche dura che però non scoraggia questi veri e propri pastori “con l’odore delle pecore” dato che in tali aree la principale fonte di sopravvivenza è la pastorizia. Pastori di una Chiesa giovane, piccola e di periferia, che in Mongolia si prende amorevolmente cura di 1.300 fedeli su un totale di tre milioni e mezzo di abitanti, il 30 per cento nomadi, un terzo dei quali vive al di sotto della soglia di povertà. Un’esiguità numerica inversamente proporzionale all’impegno e alla dedizione fondati su fratellanza e armonia per rivitalizzare, guidati dal Vangelo giorno dopo giorno, quelle radici cristiane di origini siriache presenti nell’area fin dal decimo secolo e poi congelate dall’epopea dell’impero mongolo.

«Per molti secoli — ha spiegato padre Marengo in un’intervista rilasciata a Vatican News — il cristianesimo non era stato più vissuto, motivo per cui oggi, a livello popolare, si ritiene che esso sia qualcosa di nuovo, venuto dall’estero in anni recenti, magari non ricordandosi che c’era una pagina di storia ben più antica». Quindi essere vescovo in Mongolia, paese a maggioranza buddista, «è un dono molto grande e una grandissima responsabilità che sento, per cui anche tremo, e sento anche la gravità, nel senso bello della parola, di questo dono. Ci avvicina al vero senso della missione». Rispetto a coloro che hanno ricevuto il battesimo, sottolinea il religioso, è necessario operare per aiutarli a crescere nella fede e approfondire la loro sequela di Cristo, prima ascoltandolo e poi «sussurrando il Vangelo nella terra dell’eterno cielo blu», espressione ripresa dall’arcivescovo emerito di Guwahati, Thomas Menamparampil, che è poi diventata titolo della tesi di laurea di padre Marengo. «La missione parte innanzitutto da un ascolto profondo del Signore che ci manda, dello Spirito che ci abita e ci plasma, e del popolo a cui si è inviati», persone con una loro storia, cultura, con delle radici profonde. «Come dice spesso Papa Francesco, e prima di lui Benedetto XVI, la missione più che voler diffondere un messaggio a tutti i costi è veramente un dono di grazia che cerchiamo di offrire noi per primi che lo riceviamo». Dedicando il tempo alla voce di Cristo si riempie l’anima di una grande sapienza che viene usata per entrare in empatia con la comunità: studiare la lingua, a esempio, o affinare gli strumenti che permettono di instaurare un rapporto profondo con la gente, cercando di comprendere ciò che per loro sono i punti di riferimento, la storia, le radici culturali e religiose.

L’annuncio della Parola “in punta di piedi”, con un sussurro, è quindi una costante opera di evangelizzazione che richiede, puntualizza il missionario, di offrire con umiltà e sincerità «questa perla preziosa che abbiamo ricevuto: il Vangelo del Signore». È al contempo un messaggio che deve scardinare i punti di riferimento sia per chi diffonde il Verbo sia per chi lo riceve, rivestito di quel coraggio che non deve mai venir meno anche quando la Parola può sembrare qualcosa di estraneo, di diverso, di provocatorio. Il tutto con “gratuità”, ci tiene a precisare il nuovo prefetto apostolico di Ulaanbaatar, trasmettendo amore concreto e disinteressato di fronte alle ferite dell’umanità.