· Città del Vaticano ·

Punti di resistenza

Viaggio in Albania

Il ponte di Mes (Scutari)
11 luglio 2020

La bellezza nascosta della Terra delle aquile


Navigando ad andatura moderata bastano meno di un paio d’ore per attraversare il Canale d’Otranto. Da Punta Palascio, quando il cielo è limpido, si ha la sensazione di toccare Capo Linguetta, la costa meridionale dell’Albania più vicina all’Italia. Dalla bellezza mozzafiato, l’Albania resta ancora, in molte sue parti, un luogo quasi del tutto sconosciuto e inesplorato. Lunghi anni di dittatura comunista lo hanno isolato dal resto del mondo; un Paese chiuso in sé, autarchico, che vietò qualsiasi culto religioso all’intera popolazione. Solo negli anni Novanta del secolo scorso è iniziata una svolta che ha portato l’Albania ad aprirsi all’Occidente.

Un filo immaginario sembra tagliare in due quel “paese di fronte”, carico di spiritualità e di cultura, «autentica fratellanza religiosa tra i credenti della stessa nazione» come ricordava Papa Francesco durante la memorabile visita apostolica di qualche anno fa. Fratellanza religiosa che neanche la dittatura ha potuto soffocare e che ha legato sotto la stessa bandiera una popolazione la cui capacità di resilienza è fuori dal comune, dove islam e cristianesimo si sono fusi nella stessa civilizzazione tramite le quattro confessioni che irrorano dello stesso sangue il tessuto nazionale dai lontani secoli della dominazione ottomana fino ad oggi. Il nostro itinerario incomincia dall’estremo sud, di fronte a Corfù. Siamo sulla spiaggia di Ksamil, che si stende per 6 miglia, quelle che mancano perché la sabbia si mescoli con quella greca. Piccole baie rocciose, grotte e una vegetazione mediterranea. Un luogo magico in cui il mare cristallino, l’antico villaggio dei pescatori e il suono irregolare di una roga, flauti, tamburi e clarinetti fatti di pietra o di steli di cereali fanno da sfondo alla vita che non si interrompe fino all’alba. Inerpicandoci sulle montagne raggiungiamo Argirocastro, un luogo tutelato dall’Unesco che affonda le sue origini nel terzo secolo avanti Cristo. Il paesaggio è mutato totalmente. Attraverso parchi naturali e foreste raggiungiamo il piccolo e prezioso centro storico sospeso sulla spianata sottostante. Dopo una visita al Castello di Pasha Tepelene decidiamo di passare la notte in una tipica casa ottomana. Ce ne sono molte in questa zona, si chiamano kulle, molto simili a torrette fortificate. Il giorno dopo riprendiamo il viaggio diretti a Berat ma non prima di aver fatto una breve sosta al Blue Eyes, la sorgente del fiume Bistrice che sfocia nel Mar Ionio. Il bianco delle pietre calcaree rende quello specchio d’acqua di una trasparenza sublime e il bosco di querce secolari e di sicomori che lo protegge dalle incursioni di turisti curiosi, fa del Blue Eyes un patrimonio ancora vergine e selvaggio di impatto stupefacente.

Quando riprendiamo il viaggio è quasi buio, dobbiamo far presto perché spostarsi in Albania non è molto confortevole. Manca del tutto la rete ferroviaria e le strade sono spesso impervie ma fortunatamente il paese è ragionevolmente piccolo, grande quanto il Piemonte, e in poco tempo arriviamo a destinazione.

Bisogna attraversare il fiume Shukumbini che attraversa il paese da Est ad Ovest. Non si tratta soltanto di oltrepassare un ponte ma un vero e proprio confine spirituale, dobbiamo lasciare l’universo bizantino e il suo corollario ottomano per spingerci in una regione profondamente diversa. Arriviamo alle pendici del Monte Tomorr sulla vetta del quale i fedeli di confessione islamica credono che riposi l’imam Ali, genero di Maometto e padre del chiismo e del bektashismo. È lì che appare magicamente Berat, la città dalle mille finestre, la città-museo, sopravvissuta miracolosamente alla politica di Hoxha. Ciò che colpisce immediatamente, a parte le infinite finestrelle di matrice ottomana spalancate sulla città, è l’intreccio di chiese e moschee che convivono magistralmente nelle architetture perfette e nelle atmosfere scandite dalle litanie dei muezzin che chiamano alla preghiera sovrapposte al suono delle campane.

Il fiume Osum divide la zona cristiana (Gorica) da quella musulmana (Mangalemi) mentre arroccata in cima alla collina, a Kalaja le rovine di chiese bizantine sembrano protette dalle mura ottomane del castello. Oltre ai tanti edifici sacri tra cui la cattedrale della Dormizione della Vergine, la moschea della Confraternita dei celibi, la cattedrale Ortodossa di San Demetrio, la chiesa di San Teodoro, la moschea del Sultano e quella del Piombo ci sono dimore storiche private — probabilmente dei Toptani — di particolare rilevanza che fanno onore allo stile ottomano, un misto di leggerezza e sofisticata e rassegnata dignità.

C’è una festa in città, sta per celebrarsi un matrimonio, i preparativi sono iniziati da giorni, quando la sposa inizia a ricevere gli ospiti chiamati ad augurarle buona fortuna. Chi vuole contribuisce alla dote lasciando una busta con del denaro sul vassoio poggiato all’ingresso.

Sembra quasi di entrare nelle pagine di Rosso come una sposa, il primo romanzo della prolifica scrittrice albanese Anilda Ibrahimi, una saga familiare che ha molto da raccontare sul mondo skipetaro dai primi del Novecento agli anni Duemila, attraverso quattro generazioni di donne. Proprio come nel libro è stato preparato un buffet di dolci turchi e sherry per le donne e raki e superalcolici per gli uomini. Usanza curiosa, per chi non è del posto, è l’abito nuziale della sposa che sarà rosso, colore tradizionale per le nozze. Il giorno seguente i festeggiamenti si sposteranno a casa dello sposo e alla fine di questo lungo e gioioso rituale si concluderà di fronte all’altare.

Riprendiamo il viaggio per Kruje, poco più a nord. Le strade, ancora intatte pullulano di botteghe antiquarie e di negozi di stoffe e tessuti pregiati. Sembra che il tempo sia fermo agli anni del Rinascimento e alle gesta di Giorgio Castriota Skandemberg, eroe nazionale. Ma è il momento di attraversare il ponte sopra il Shukumbini e di calarci in un’altra dimensione. Qui non si osserva con gli occhi ma si sente con il cuore. È un’esperienza forte, lo sapevamo ma quando una clarissa ci introduce nella chiesa dei Francescani a Scutari il dolore infinito patito in quella terra martoriata ci piomba addosso con tutta la sua forza. Il racconto dello strazio della persecuzione è scolpito su quelle mura, nelle antiche celle dei frati trasformate in carceri e luoghi di tortura. Vediamo i lunghi fili spinati con cui i prigionieri venivano avvolti e uccisi dalle scosse elettriche e tutto questo orrore ci dà la consapevolezza che forse il mondo ricorda troppo poco di quella storia neppure così lontana ed estranea o più probabilmente soltanto sconosciuta.

Scutari è una città che scuote, è meta di pellegrinaggio religioso dei culti più disparati per i miracoli che si dice siano accaduti nel complesso religioso di Shna’Noi a Lac, dedicato a sant’Antonio di Padova, la cui reliquia della mano destra è rimasta impressa su una roccia. C’è una folla di gente eppure regna una quiete inconsueta. Ci guardiamo increduli negli occhi, prima di scambiarci il segno della pace. Dobbiamo tornare in Italia, partiamo in aereo dall’unico aeroporto di tutto il territorio, Tirana. Durante il viaggio proiettano il film Lamerica di Gianni Amelio, che ricorda lo storico sbarco della motonave Vlora nell’agosto del 1991 a Bari. Proviamo un senso di sofferenza e poi di gioia. Guardo lontano oltre le nuvole ci sembra di scorgere l’ultimo lembo di terra promessa, del Paese delle Aquile.

di Flaminia Marinaro