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Dieci anni fa moriva la sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico

Una donna superlativa allergica ai superlativi

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31 luglio 2020

Quando parlava dei suoi amici scomparsi — e che amici, Luchino Visconti, Anna Magnani, Nino Rota, per citarne alcuni — Suso Cecchi D’Amico diceva: «Li penso vivi, ci ragiono, partecipano alla vita e non come fantasmi». Ricordare la grande sceneggiatrice, a dieci anni dalla sua scomparsa — avvenuta a Roma, il 31 luglio 2010 — significa ragionare ancora con lei che attraverso il cinema ha raccontato la vita. Era notoriamente allergica ai superlativi, ma è difficile non usarne quando, scegliendo titoli a casaccio dalla sua lunga filmografia — Il Gattopardo e I soliti ignoti, Ladri di biciclette e Salvatore Giuliano — ci si rende conto che il suo contributo al cinema è incalcolabile.

In realtà, Suso Cecchi D’Amico ha sempre inteso il proprio lavoro di sceneggiatrice come puro artigianato, senza mai soffrire della sindrome di frustrazione che colpisce gli scrittori di cinema, che vedono rimaneggiati i propri testi. Presentando su Bianco e Nero il trattamento del 1972 di Ritratto di uno sconosciuto scritto con Visconti per un film mai fatto, la scrittrice di film sottolinea che si tratta di «un lavoro tecnico, come la planimetria di un architetto, e come tale vorrei che fosse letto».

Se ci affacciamo nella dimensione privata di Giovanna Cecchi detta Suso, arriviamo a scoprire una donna emancipata ante litteram, forte e ironica, che ha vissuto senza risparmiarsi e che ha trovato nel lavoro della sceneggiatura la sua attività congeniale.

L’incontro col cinema avviene dopo la guerra quando, a fine 1945, suo marito, il musicologo Fedele d’Amico, fu ricoverato in una clinica svizzera per una grave tubercolosi e lei, rimasta sola con due figli piccoli, cerca di cavarsela con lavoretti precari. Le traduzioni non bastano, anche se tra i committenti c’è Luchino Visconti, per testi di teatro americano. Negli oltre sedici mesi di degenza del marito, ogni giorno Suso gli scrive trasfigurando le difficoltà quotidiane in lettere scherzose (raccolte nel volume Suso a Lele, Bompiani). Un giorno gli annuncia d’aver ricevuto l’offerta di scrivere storie per il cinema. Da allora è un crescendo.

L’esordio avviene col film Mio figlio professore (1946) di Renato Castellani e Vivere in pace e L’onorevole Angelina (1947) di Luigi Zampa. “La Suso” si inserisce con autorevolezza in un ambiente maschile, perché sa costruire solide fondamenta alle storie. Dal padre Emilio Cecchi — rinomato critico letterario, il primo in Italia a recensire Joyce e a tradurre Chesterton — ha acquisito un rapporto viscerale con la letteratura e le cosiddette macchine narrative.

Quando Sergio Amidei, tra i più affermati sceneggiatori del tempo, abbandona la scrittura di Ladri di biciclette (1948) in disaccordo “ideologico”, è lei a prenderne il posto. La novità è che il lavoro di sceneggiatura con Zavattini e De Sica si fa girovagando per Roma, alla ricerca di spunti che raccontino la miseria del dopoguerra. Da subito, Suso Cecchi D’Amico ritiene che il finale di Ladri di biciclette fosse tronco — l’operaio tornava a casa senza aver trovato la sua bici — ed escogita che, per reagire alla disperazione, l’uomo derubato si senta costretto a sua volta a rubare. Il cerchio si chiude con uno dei finali più famosi della storia del cinema.

L’anno più rivelatore del ruolo che Suso Cecchi D’Amico svolge nel cinema italiano è probabilmente il 1957, quando la sceneggiatrice si alterna tra Visconti e Monicelli. Nessuno voleva più finanziare un film di Visconti, dopo che Senso (1954) era costato oltre misura. E Suso si mise in società con Marcello Mastroianni per convicere Franco Cristaldi a produrre con loro Le notti bianche, trasposizione moderna del racconto di Dostoevskij. Visconti fece però ricostruire a Cinecittà un intero quartiere di Livorno, confermando la leggenda sui suoi budget. Per recuperare le spese, Cristaldi e Cecchi D’Amico pensarono di girare un altro film per sfruttare quella scenografia, e convocarono Mario Monicelli, noto per rispettare i preventivi di spesa. Il regista portò con sé Age e Scarpelli, il duo di sceneggiatori, noti fino allora per le farse di Totò, e subito si creò una complicità ideale con Suso Cecchi D’Amico. Con I soliti ignoti nasce la “commedia all’italiana”.

Questa capacità di mettersi a disposizione della riuscita del film, determina che non solo come sceneggiatrice lei diventi il punto di riferimento di registi diversissimi tra loro come Visconti, Antonioni, Rosi, Monicelli, Comencini, per citare i più rappresentativi. Non a caso, Lina Wertmuller — con cui ha scritto Fratello Sole Sorella Luna — dice che più che la Gran Signora del cinema italiano, Suso Cecchi D’Amico è stata “la Sorella” per generazioni di cineasti e artisti. Basti pensare al profondo rapporto che la legava ad Anna Magnani, al cui carattere imprevedibile sapeva opporre sia pazienza che schiettezza. Il risvolto è che la scrittura di Cecchi D’Amico valorizza le potenzialità attoriali della Magnani, dall’Onorevole Angelina (1947) Bellissima (1951) Nella città l’inferno (1958) fino a Risate di gioia (1960).

Un singolare capitolo del suo lavoro si è aperto nei primi anni Settanta, quando tra il mondo del cinema italiano, in piena crisi, e la televisione si è creato un dialogo. La platea televisiva andava moltiplicandosi sia a livello nazionale che globale e cresceva quindi l’ambizione dei progetti. Nel 1974, con Luigi Comencini ha trasformato Le avventure di Pinocchio in un film televisivo di 5 ore, di straordinario successo.

La Rai insieme alla inglese ITC di Lew Grade ha affidato a Franco Zeffirelli il progetto di una vita di Gesù. Per il regista fiorentino è naturale rivolgersi a Suso Cecchi D’Amico, che per lui ha già scritto Fratello Sole Sorella Luna (1972), ma mentre il film su san Francesco rispecchiava una visione personale, per “il Gesù” la committenza pone precise richieste, a cominciare dal rispetto per le diverse comunità religiose. Perciò consulenti teologici e funzionari televisivi compulsano continuamente il lavoro della sceneggiatrice, che ha il compito di raccontare nel modo più corretto possibile gli accadimenti dei Vangeli senza avere il tono della dottrina. Gesù di Nazareth trasmesso nella primavera del 1977 raccoglie mezzo miliardo di spettatori in tutto il mondo e il massimo degli indici di gradimento.

È singolare che, agli inizi degli anni Settanta, proprio Zeffirelli si fosse interessato a un soggetto cinematografico che Suso Cecchi D’Amico aveva scritto con Ennio Flaiano e che raccontava Gesù senza mostrarlo: L’inchiesta. Una indagine condotta da un magistrato romano scettico, che cercava il corpo di Gesù e finiva coinvolto dalle testimonianze di chi aveva vissuto con lui. In questo “mostrare e non mostrare” un personaggio, e comunque farlo sentire presente, Suso Cecchi D’Amico ha attraversato il mistero del racconto per immagini.

In una delle lettere che nel 1946 Suso scrive al marito Lele malato, lontano dalla famiglia, gli racconta delle prime sceneggiature che sta scrivendo e gli confida, sbalordita: «Lo sai? Lavoro, me la cavo!».

di Antonio Farisi