· Città del Vaticano ·

Il 4 luglio 1958 nasceva don Giuseppe Diana

Un prete rivestito di Vangelo

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03 luglio 2020

Sessantadue anni fa, quando nacque, il 4 luglio 1958, non sapeva che avrebbe cambiato il destino — rivoluzionandolo — di Casal di Principe, il suo paese natale; Casapesenna e San Cipriano D’Aversa: i tre paesini del Casertano passati alla storia come la capitale di “gomorra”. Il suo nome era Giuseppe Diana. Fu ordinato sacerdote nel marzo 1982. La camorra lo uccise ventisei anni fa, il 19 marzo 1994, nel giorno del suo onomastico, nella sua chiesa parrocchiale, mentre si accingeva a dire messa. L’unico sacerdote ucciso in una chiesa in Italia; don Puglisi fu freddato all’esterno delle sacre mura. Un triplice sfregio dei clan contro la persona, la comunità e la Chiesa. Ventisei anni dopo il martirio, il messaggio di don Diana ha provocato una vera rivoluzione nella sua terra. Un “miracolo” collettivo laico. Casal di Principe è il luogo di mafia in Italia dove sono stati riutilizzati — più di qualsiasi altro — la maggior parte dei beni confiscati ai clan. Nelle ville dei boss, nelle centrali dove si decideva la vita e la morte delle persone — gli affiliati di altri clan o normali cittadini coraggiosi condannati a scomparire per sempre o essere uccisi platealmente — sono nati ristoranti, centri di assistenza a persone disabili e a bambini autistici, cioccolaterie (una in particolare, la Dulcis in fundo, è stata fondata dai ragazzi dell’Azione cattolica di don Peppe Diana); cantine sociali, imprese agricole, fabbriche di trasformazione di marmellata e succhi di frutta; caseifici per la mozzarella di bufala e tanto altro. Un “miracolo” avvenuto grazie al sangue sparso da don Diana, al suo insegnamento.

Ma cosa ha fatto questo prete? Esempio luminoso di virtù per la Chiesa italiana e mondiale, infangato dai clan, quando capirono che il suo messaggio stava minando gomorra dalle fondamenta. Un odio da parte delle famiglie mafiose che continua ancora oggi che la struttura militare dei “falsi casalesi”, i boss, è stata distrutta dallo Stato, da magistrati valorosi come Federico Cafiero De Raho; ma esiste e prospera tuttora il “tesoro” del clan, alimentato e gestito da mille collusioni di colletti bianchi. Don Diana fece solo il suo mestiere di sacerdote in quegli anni, tra il 1991 e il 1994, quando i casalesi erano già in grado di condizionare l’Italia e di investire centinaia di miliardi all’estero, ma nessuno aveva il coraggio di usare la parola camorra o mafia da quelle parti. Semplicemente nessuno aveva la forza di parlare. Tutti avevano il capo chino. Un silenzio che sui media nazionali e stranieri è durato fino a meta del primo decennio del ventunesimo secolo.

Invece don Diana parlò, come può fare solo un prete. Con il Vangelo in mano, in chiesa, nelle omelie, nell’oratorio, aprendo la parrocchia ai ragazzi e alle famiglie, portandoli con la sua auto ad assistere alle partite del Napoli. Offrendo un orizzonte nuovo, la possibilità di una vita diversa alla sua comunità, aprendo gli occhi alla sua gente. Mentre il sacerdote parlava, il clan prosperava. Mentre apriva le porte della parrocchia, la chiesa di San Nicola di Bari, le cronache e le testimonianze raccontano che chi arrivava a Casal di Principe in quegli anni, e non era del posto, era controllato passo passo dalle vedette della camorra. Che i clan avevano killer in sella alle moto con i kalashnikov a tracolla, che controllavano passo passo, centimetro per centimetro, una enclave sconosciuta allo Stato, ma che si comportava da Nazione a se stante e decideva il futuro dell’Italia da un piccolo triangolo di territorio nel Casertano. Un luogo dove se arrivavi in moto e indossavi il casco, dovevi toglierlo: bisogna essere riconoscibili.

La vita pubblica di don Giuseppe Diana cominciò il 21 luglio del 1991, ben prima del famoso appello lanciato ai suoi concittadini, insieme a tutti i sacerdoti della Forania di Casal di Principe: «Per amore del mio popolo». Domenica 21 luglio 1991, nel pieno del pomeriggio, nella piazza di San Cipriano D’Aversa scoppia una sparatoria all’improvviso, come nel vecchio west, all’incontrarsi dei pistoleri. C’è un fuggi fuggi, tutti si nascondono. Un’auto si trova nel mezzo della sparatoria. Muore il guidatore, Angelo Riccardo, giovanissimo, di rientro dal mare. Rimane ferito anche un altro passeggero, un ragazzo anche lui. Don Diana viene avvisato al telefono. Chi lo chiama gli chiede di fare qualcosa: «Tu sei l’unico che può parlare», gli danno il Tu. Don Peppe stette tutta la notte a meditare. Il giorno seguente si vestì del Vangelo e la domenica seguente, il 28 luglio 1991, davanti alla sua chiesa e a quella di San Cipriano, firmato dai due parroci e da due laici, uscì un volantino che fu letto anche durante la messa: «Basta alla dittatura armata della camorra». Fu quello l’inizio della predicazione per chiedere alla camorra, al clan di gomorra di smettere di sparare. Di uccidere innocenti. Quella testimonianza, quella “marturia”, non terminò più. Non sarebbe più terminata se non fosse stata fermata dal piombo caldo. Ma da quel giorno, il suo messaggio, nelle omelie, in tanti articoli sul periodico «Lo Spettro», riflessioni fondamentali come «La forza della Parola», tutte ispirate alla grazia della «Buona Novella» che deve essere annunciata al popolo di Dio, che doveva rivestire tutte le anime degli abitanti di quei tre paesi, come dice anche Papa Francesco, non si è più fermata. Non l’ha fermata nemmeno il killer, quella mattina del 19 marzo. Neppure le calunnie che gomorra ha inventato in tutti i modi. Il giorno del funerale di don Diana, il primo giorno di primavera, c’era una folla inaspettata in chiesa. C’erano migliaia di lenzuola bianche per le strade. La gente di Casal di Principe durante quelle ore, dal momento dell’omicidio, aveva scelto. Aveva abbandonato gomorra e aveva scelto il Vangelo di cui si era rivestito don Diana. E ancora oggi quell’esempio, quella storia, riveste le nostre anime, come l’abito più bello che potremo mai indossare. È questo il motivo per cui bisogna andare a Casal di Principe per toccare con occhi e guardare con mano il “miracolo” collettivo compiuto da questo giovane sacerdote tanti anni fa.

di Luigi Ferraiuolo