· Città del Vaticano ·

La libertà umana

Tra grazia e peccato

Graham Greene
01 luglio 2020

«Egli non poteva vederla nell’oscurità, ma poteva ricordare una quantità di volti dei tempi passati che si adattavano alla sua voce. Considerando con attenzione un uomo o una donna, si poteva sempre cominciare a provarne pietà. Era una qualità insita nell’immagine di Dio. Quando si erano vedute le rughe agli angoli degli occhi, la forma della bocca, il modo in cui crescevano i capelli, era impossibile odiare. L’odio era semplicemente una mancanza di immaginazione».

Il protagonista della scena è un prete che si trova in una cella comune, di notte, insieme a tante altre persone incarcerate a seguito di una retata della polizia. In realtà la polizia cerca proprio lui, perché è in atto una persecuzione dei cattolici. Una donna lo riconosce e gli si avvicina per confessarsi e per lamentarsi del comportamento di altri detenuti. Prendiamo questo brevissimo testo perché come in un tessuto umano, anche in un piccolo brandello-campione c’è racchiuso il dna dell’intero organismo. In queste parole c’è tutto Graham Greene.

Il potere e la gloria è forse il suo capolavoro. È appunto la storia di un prete, di cui non si conosce nemmeno il nome, che vive nel Messico degli anni Venti. È un prete corrotto. Il tema della corruzione e del peccato è il tema presente in tutte le opere di Greene. Questo prete non solo ha tradito la sua vocazione, ha avuto una figlia da una relazione con una donna, e continuamente manca alla sua missione: è un vigliacco e fugge incessantemente alla persecuzione di quegli anni feroci. Tutto il libro è la descrizione di quel “continuamente” e delle sue possibili eccezioni.

In un breve, intenso, articolo scritto nello stesso anno del romanzo, nell’ottobre 1940, intitolato A casa, Greene scrive, riferendosi ai bombardamenti subiti dagli inglesi da parte dell’aviazione nazista: «Ci si abitua a qualunque cosa», però poi aggiunge: «Ci sono delle cose alle quali non ci si abitua mai perché non hanno connessione: la santità, la fedeltà e il coraggio degli esseri umani abbandonati al libero arbitrio: simili virtù appartengono ai vecchi edifici delle università e alle cattedrali, reliquie di un mondo con fede». Ecco, Il potere e la gloria parla di questa santità che spezza l’abitudine, che interrompe la “connessione” (viene in mente Eliot che chiamava la Chiesa «La Straniera»). Il prete corrotto, totalmente abbandonato al libero arbitrio ad un certo punto riacquista il coraggio e la fedeltà e proprio nel finale, smette di fuggire e, semplicemente, diventa quello che è sempre stato, nella sua infedeltà, un prete. Lo spiega meglio lui stesso quando parla, per l’ultima volta, nel momento in cui sta per essere fucilato, al luogotenente, rivoluzionario, razionalista e ateo, che lo ha catturato: «Questa è un’altra differenza tra noi. È inutile che lavoriate per il vostro scopo, a meno che non siate un uomo buono voi stesso. E non ci saranno sempre uomini buoni nel vostro partito. E allora si avrà di nuovo tutta la vecchia fame, le violenze, l’arricchirsi ad ogni costo. Ma il fatto ch’io sia un codardo, e tutto il resto, non ha molta importanza. Posso mettere Dio lo stesso nella bocca di un uomo, e posso dargli il perdono di Dio. Anche se ogni prete della Chiesa fosse come me, non ci sarebbe nessuna differenza sotto questo aspetto».

Da cattolico inglese la “battaglia” che Greene condusse fu essenzialmente per la libertà, rivendicando tale libertà innanzitutto rispetto alla sua stessa condizione di credente, categoria per lui inesistente dal punto di vista letterario, gli scrittori cattolici infatti non esistono, ci sono solo “romanzieri che sono anche cattolici”, come scrive nei Saggi Cattolici: «Io appartengo ad un “gruppo”, la Chiesa cattolica, un fatto del quale, come scrittore, potrebbero derivarmi gravissimi problemi: invece non li ho, appunto perché posso essere sleale».

È proprio questa slealtà (caratteristica dei protagonisti di molti suoi romanzi) che lo porta ad affermare paradossalmente che la letteratura non ha niente a che fare con l’edificazione spirituale: «Con ciò non voglio affermare che la letteratura sia amorale, ma che ha una sua morale propria». Ed è sempre il gusto del paradosso che spinge Greene a porre, in apertura del romanzo Il nocciolo della questione, quasi programmaticamente, il seguente verso di Péguy: «Al cuore stesso della cristianità nessuno è così competente come il peccatore in materia di cristianità. Nessuno se non il santo». Sempre ne Il nocciolo della questione, Greene parla per bocca del suo protagonista e afferma: «Qui nessuno avrebbe mai potuto parlare di un paradiso in terra: il cielo rimaneva rigidamente al proprio posto al di là della morte, e al di qua prosperavano le ingiustizie, le crudeltà, le grettezze che altrove la gente riusciva abilmente a mascherare. Qui si potevano amare le creature umane quasi come le ama Dio stesso, conoscendo il peggio di loro».

Secondo Charles Moeller, autore di una monumentale opera in cinque volumi su Cristianesimo e Letteratura, l’intera opera di Greene è una glossa alla sentenza evangelica “non giudicare”. La sua è una letteratura radicata nel cristianesimo ma nella “versione inglese”, amante cioè dell’umorismo e del paradosso, una letteratura dove la presenza della Grazia scaturisce da forti contrasti. In realtà Greene descrive il peccato, l’inferno. È la visione messa in luce molto chiaramente da Flannery O’Connor, acuta lettrice di Greene, quando scrive: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa»; la stessa O’Connor che amava ricordare che il compito del narratore è descrivere l’opera della Grazia in un territorio per lo più occupato dal diavolo, un perfetto riassunto de Il potere e la gloria.

di Andrea Monda