· Città del Vaticano ·

A un anno dalla morte del cardinale cubano Jaime Lucas Ortega y Alamino

La profezia del dialogo

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25 luglio 2020

Il 26 luglio si celebra il primo anniversario della morte del cardinale cubano Jaime Ortega y Alamino. Per trentacinque anni arcivescovo dell’Avana, la sua vita e la sua azione pastorale hanno decisamente marcato le relazioni tra la Chiesa e lo Stato a Cuba. Creato cardinale da Papa Giovanni Paolo II nel concistoro del novembre 1994, in pieno “periodo speciale” (la difficilissima crisi economica cui piombò il paese all’indomani del crollo dell’Urss), fu eletto subito dopo vicepresidente della Conferenza episcopale latinoamericana. Personalità colta, dal tratto sempre cortese, pacato, sorridente, Ortega y Alamino ha incarnato durante tutta la sua vita i grandi valori evangelici del dialogo, del rispetto, dell’attesa tenace, della misericordia, del fervore.

Chi ne scrive oggi il ricordo, ha goduto della sua amicizia, della condivisione confidente di sogni e di lotte. Come ogni autentico profeta, egli ha vissuto indiscutibili successi e sofferto per non poche incomprensioni. Ha sempre goduto la stima ed il sostegno dei Pontefici: la fedeltà al Papa era per lui tutt’uno con la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Richiamarne la memoria non è tuttavia semplice espressione di riconoscenza, ma ravviva oggi per Cuba e per tutta la Chiesa una luminosa testimonianza da raccogliere e far propria, per realizzare un po’ dappertutto le grandi prospettive del concilio. Ortega è stato l’uomo del dialogo. In lui le grandi intuizioni espresse da Paolo VI nell’Ecclesiam suam, prima enciclica del suo pontificato, sono state incarnate fin nel dettaglio. Non per scrupolosa osservanza della lettera, quanto per espressione di uno spirito connaturato con il suo essere. Non era facile, in un paese che ha conosciuto anni molto duri di scontri e di incomprensioni, succedutisi all’avvento della rivoluzione del 1959 che modificò gli assetti sociali di Cuba e gli equilibri politici dell’intera regione dei Caraibi.

Con le parole di Eusebio Leal Spengler, celebre Historiador de la Ciudad de La Habana, membro del Consiglio di Stato e amico personale del cardinale Ortega, possiamo dire che «lo scontro ideologico che si verificò in quel momento fu praticamente inevitabile: molto grande era la contraddizione tra gli interessi di entrambe le parti; tra la dottrina cattolica e lo sviluppo vertiginoso degli eventi rivoluzionari. Non solo la curia, ma ogni persona, cattolica o meno, saranno vittime di disprezzo in un periodo di intransigenza ideologica, impregnato dell’ideale della libertà e dell’emancipazione elaborate dal governo rivoluzionario. Insieme agli omosessuali e ai dissidenti, molti fedeli cristiani (inclusi religiosi) di qualsiasi denominazione, sarebbero stati condotti alle Unidades Militares de Ayuda a la Producción (umap), ossia ai lavori forzati. Toccò anche a padre Jaime Ortega, che era appena tornato dai suoi studi teologici a Montreal e iniziava la sua vita come sacerdote nella diocesi di Matanzas».

Le difficoltà di quegli anni, la conoscenza diretta delle repressioni subite dalla Chiesa, non offuscarono in Ortega la capacità di “andare oltre”, di riprendere il cammino di dialogo nella ricerca di convergenze che aiutassero a far sintesi e a migliorare qualitativamente la vita del popolo. La logica della contrapposizione alla lunga non paga, mai. Gli anatemi usati nel passato hanno spesso alimentato, con l’odio e il rancore, veri e propri conflitti cruenti. La storia ne è testimone e giudice. Padre Jaime, che aveva vissuto i lavori forzati, lo sa. Rielabora tutto alla luce dell’insegnamento del concilio che, guidato dalla saggezza patristica, invita a scorgere ovunque ed in chiunque i semi del Verbo. Il dialogo si nutre allora di rispetto. L’altro, lo Stato, non è un nemico. Dietro i sistemi e le ideologie ci sono le persone. Dentro le ideologie ci sono semi di verità che vanno evidenziati, potenziati e purificati. Rispetto non equivale a misconoscimento superficiale delle differenze e oblio delle sofferenze patite da molti che magari si videro espropriare tutto ciò che possedevano da un giorno all’altro, senza diritto d’appello. Ma Jaime non si limita alla denuncia e al risentimento. Cerca di realizzare il bene concretamente possibile, dimostrando inutile e sterile l’atteggiamento dell’arroccamento. Senza giudicare chi lascia il paese, resta nella sua amata patria. Ne condivide gioie e dolori. Attende con fiducia i tempi di Dio, che non coincidono sempre con i tempi dell’uomo.

La sua visione pastorale, il suo operato, furono sempre molto apprezzati e sostenuti dalla diplomazia Vaticana, che non interruppe mai il dialogo con il governo dell’Avana.

Determinante fu il primo Convegno nazionale ecclesiale Cubano (Enec), celebrato nel 1986, che aveva come slogan riepilogativo: «Beati quelli che conoscono i segni dei tempi». Dopo intense riflessioni, al termine di quell’incontro rimase aperta una domanda: come accettare la possibilità di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato marxista, respingendo qualsiasi attitudine al conflitto? Per cercare una risposta, il clero cubano dovette ripensare criticamente la propria storia, così da poter discernere tra “grano e zizzania”. A sua volta, era arrivato il momento di dimostrare che non si potevano scrivere storie parallele per la Nazione e per la Chiesa di Cuba, perché per ragioni storiche e culturali entrambe erano intimamente intrecciate. Jaime Ortega era allora arcivescovo dell’Avana già da cinque anni. I tratti della sua personalità, i suoi meriti e l’originalità del suo messaggio lo avevano già reso il principale leader della Chiesa cubana. Egli si rese conto che l’alta dirigenza del partito e del governo, coinvolti in un processo di rettifica degli errori, era disposto a un atto di riparazione o di giustizia nei confronti dei fedeli cristiani.

La figura di monsignor Jaime Ortega, che nel 1994 riceverà la porpora cardinalizia, può essere considerata di rilevanza internazionale, essendo tra i principali artefici delle tre visite papali a Cuba: Giovanni Paolo II, nel 1998; Benedetto XVI, nel 2012 e Francesco nel 2015. Egli stesso fu inoltre importante mediatore per il ripristino delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti.

Sebbene Ortega non si sia mai considerato il protagonista della visita di Giovanni Paolo II, di fatto tutti a Cuba riconoscono che la sua posizione etica, la sua attitudine al dialogo e a saper riconoscere in tutti i segni dello Spirito, abbiano costituito uno dei pilastri che garantirono il pieno successo dello storico viaggio del Papa. Per la prima volta, un successore di Pietro toccava la terra cubana. I dettagli del pellegrinaggio, l’incontro con il Capo della Rivoluzione e gli atti più rilevanti, furono trasmessi in diretta, interamente, dai mass media. Il divieto di processioni pubbliche cessò e un clima di gioia caratterizzò quei giorni indimenticabili. Quel successo fu anche dovuto all’eccellente lavoro della commissione congiunta Chiesa-Stato.

Anni dopo, nel novembre 2005, Fidel Castro, partecipa a un incontro organizzato dal nunzio apostolico, dai vescovi cubani e altri religiosi per celebrare il settantesimo anniversario dell’istituzione dei rapporti con la Santa Sede. Giovanni Paolo II era morto il 2 aprile dello stesso anno e, ricordandolo, Fidel lasciò scritto nel libro de condolencias della nunziatura apostolica a Cuba: «Riposa in pace, instancabile combattente per l’amicizia tra popoli, nemico della guerra e amico dei poveri. Gli sforzi di coloro che volevano usare il tuo prestigio e la tua enorme autorità spirituale contro la giusta causa del nostro popolo nella loro lotta contro il gigantesco impero si sono rivelati inutili. Ci hai visitato in tempi difficili e hai potuto percepire la nobiltà, lo spirito di solidarietà e il valore morale delle persone, che ti hanno accolto con particolare rispetto e affetto perché sapevano apprezzare la bontà e l’amore per gli esseri umani che hanno guidato il tuo lungo viaggio sulla Terra...».

Una nuova fase di dialogo tra Chiesa e Stato inizia quando assume le sue funzioni di presidente il generale Raúl Castro Ruz nel 2008, questi avvia il progetto di modernizzazione della società cubana, adeguandosi ai tempi e alle circostanze del mondo globalizzato. Le conversazioni trascendono le questioni religiose. Eusebio Leal era con il presidente Raúl negli incontri con il cardinale Jaime che precedettero l’importante liberazione di prigionieri nel 2011. Furono chiari gli alti livelli di comprensione reciproca. Ortega con la sua calma e tenace pazienza, ottenne risultati fino a pochi anni prima insperabili. Nulla sarebbe accaduto se la sua capacità di dialogo non si fosse nutrita della solida virtù evangelica della misericordia (che non tiene conto del male ricevuto) e della capacità di attendere il kairòs dello Spirito.

Le proprietà della Chiesa iniziarono da quel momento a essere restituite; si ebbero pubblicazioni periodiche e, nelle diocesi principali, centinaia di giovani studiavano la dottrina sociale cristiana, ricevendo così conoscenze complementari all’istruzione pubblica. Importanti eventi liturgici furono trasmessi in televisione e radio. Per molti intellettuali fu finalmente possibile stabilire una chiara differenza tra fede e ideologia. Quindi potemmo rendere valido l’amato motto della precedente generazione di Azione Cattolica: «Sempre di più, sempre meglio. Dio, paese e giustizia».

La visita di Papa Benedetto XVI ha significato un altro momento di grande valore per il cardinale Jaime nel suo approccio al governo cubano e nel suo instancabile lavoro. Nonostante gli attacchi che riceveva da settori intransigenti della comunità cubana all’estero e persino all’interno del paese stesso, dove non pochi mettevano in discussione la sua leadership, era stato ricevuto dal Pontefice in un incontro privato. Dopo aver ascoltato con attenzione quanto il padre Jaime raccontava circa le circostanze che il paese stava attraversando, il Papa gli disse: «Lei ha fatto e sta facendo quello che si dovrebbe fare: la missione della Chiesa è di costruire ponti». Occorrono uomini veramente santi: animati da carità che non cede al rancore e da grandi visioni che sanno guardare al futuro prossimo e remoto con profonda speranza. Ortega lo era.

Con l’avvento di Papa Francesco le capacità di dialogo del cardinale Ortega vengono ulteriormente esaltate. Intenzionato a investire tutto il suo carisma e il prestigio del Pontificato nel tentativo di influenzare al meglio il futuro di Cuba e dell’America latina, Francesco conferisce a Jaime Ortega la delicata missione di fare il possibile affinché si realizzasse l’incontro tra Raúl Castro e Barack Obama. Iniziarono viaggi e numerosi incontri di mediazione compiuti dal cardinale. Così il 17 dicembre 2014, i presidenti di Cuba e degli Stati Uniti diedero l’annuncio che commosse l’opinione pubblica mondiale. Fu il primo passo verso una normalizzazione che sarà raggiunta solo quando il blocco economico-finanziario, che il cardinale Jaime ha sempre condannato, sarà finalmente abrogato. Dipende molto anche dal nuovo corso degli Stati Uniti, e dagli esiti dell’attuale pandemia che impone all’umanità intera di ripensare radicalemente non solo i modelli di sviluppo e l’economia globale, ma i rapporti tra i popoli, le culture e le religioni.

Quando si sono incontrati all’aeroporto dell’Avana, il 12 febbraio 2016, in un atto di eccezionale significato storico per il cristianesimo, Papa Francesco e Kirill, patriarca di tutta la Russia, hanno espresso la loro adesione alla pace nel mondo come un sacro dovere. Jaime Ortega era presente all’evento, testimone di un valore che ha caratterizzato tutta la sua vita di uomo, di credente, di pastore: il prevalere del dialogo sulle differenze. Il dialogo fa la comunione!

di Massimo Nevola
Superiore della comunità dei gesuiti di Sant’Ignazio in Roma e assistente nazionale della Comunità di vita cristiana