· Città del Vaticano ·

Nell’ultimo libro di Don Winslow, voce del dissenso

L’uomo capace di chiamare le cose con il loro nome

Particolare dalla copertina di «Broken» (HarperCollins, 2020)
21 luglio 2020

È una potentissima voce del dissenso quella di Don Winslow, scrittore statunitense che, con naturalezza e senza paura di inimicarsi il pubblico, fa del suo oggettivo talento una via per ascoltare un altro canto. Lo conferma il recente Broken (Milano, HarperCollins 2020, pagine 544, euro 20), che raccoglie — nella traduzione di Alfredo Colitto e Giuseppe Costigliola — sei romanzi brevi. Tormentati, avvincenti, sofferti, da cardiopalma non solo per la capacità di Winslow di costruire e raccontare l’azione, ma soprattutto per l’arte di mettere in scena la ferocia e la poesia dell’animo umano. E la sua forza di dire «no».

Aprono (Broken) e chiudono (L’ultima cavalcata) il libro due indelebili figure di madri, una di qua e l’altra di là dal confine. Una, l’americana, è la centralinista che vigila su New Orleans (smistando le chiamate che di notte arrivano alla sala operativa del Pronto intervento, sente la disperazione umana, «sente la paura, il panico, la rabbia, la furia, il caos»), è la madre che parla, straparla, sbaglia e prega («Eva conosce quella vita. Conosce quel mondo. Sa che puoi uscirne, ma comunque ne uscirai sempre a pezzi»). L’altra, Gabriela, salvadoregna, è la madre travolta dai due mondi (quello di partenza e quello in cui vorrebbe arrivare), e la cui unica parola pronunciata sarà «Grazie».

Nei sei romanzi brevi appena proposti al pubblico italiano compaiono i temi centrali della lunga produzione di Winslow; tornano alcuni dei personaggi che negli anni abbiamo imparato a conoscere, ma irrompono anche nuove figure.

Indimenticabile quella di Calvin Strickland (protagonista di L’ultima cavalcata), l’agente di frontiera che ogni giorno pattuglia il confine tra Messico e Stati Uniti e che nei migranti vede solo una massa senza nome da respingere. Ma Cal è anche un uomo che sa chiamare le cose con il loro nome. E come quello che ha ucciso suo padre non era «un problema di salute» ma un cancro alle ossa, così il luogo in cui sta quella bambina che non riesce a togliersi dalla testa non è un centro di detenzione, di custodia o di prima accoglienza, ma è — semplicemente — una gabbia. Una gabbia «così affollata da sembrare un recinto per il bestiame, solo che quelle erano persone, non vitelli, e non muggivano, ma parlavano, gridavano, chiedevano aiuto o piangevano, come quella bambina».

Cal sa per chi ha votato, lo ha votato anche per quello. Ma Cal è un uomo capace di chiamare le cose con il loro nome, e chiamare le cose con il loro nome è anche riconoscere che l’uomo per cui ha votato «ha iniziato una guerra senza alcun progetto su come condurla, e ora eccoci qui. I bambini hanno i pidocchi, prendono la varicella, la scabbia, piangono tutto il tempo. È un rumore di fondo continuo, come la NPR a casa di Bobbie, con la differenza che ti spezza il cuore e non puoi spegnerlo».

È il suo lavoro, Cal lo sa, ma qualcosa è andato storto se quel lavoro è diventato l’arte di mettere i bambini in gabbia, strappandoli ai loro genitori. C’è qualcosa che Cal non può ignorare, ed è il fatto di chiamare un errore con il suo nome — errore, appunto. Un errore che è il risultato finale di tanti errori che sommati non si elidono né si annullano. Cal, il cowboy che chiama le cose con il loro nome, sa che l’assurdità non è quello che vuole fare lui, ma quello che stanno facendo Loro. Cal sa che non può salvarli tutti, ma può salvarne una. E «forse è abbastanza».

Ne L’ultima cavalcata c’è davvero molto. C’è la migrazione raccontata dalla prospettiva di chi il confine lo pattuglia quotidianamente come lavoro che si è volontariamente scelto. C’è la solitudine causata dall’incomunicabilità, e dal dolore che — come gli errori — si somma decuplicandosi. C’è la potenza della narrazione pubblica, profondamente ambivalente nella sua capacità di distruggere ma anche di salvare. C’è chi è capace di essere davvero diverso quando essere diversi significa fare ciò che è giusto «quando costa tutto». C’è, soprattutto, la nuda, radicale, estrema verità di due scene: «La prima volta che l’ha vista, la bambina era in gabbia. L’ultima volta che l’ha vista, era libera».

Perché l’arte in cui da tempo Don Winslow eccelle è quella di far «saltare in aria la narrazione costruita finora come una bomba a mano». Lo fa benissimo, lo fa come nessuno.

di Giulia Galeotti