· Città del Vaticano ·

Il libro di Carlo Ossola «Per domani ancora. Vie di uscita dal confino»

Guardare fuori per vedersi meglio dentro

Flannery O’Connor, esempio di umiltà, una virtù da coltivare in tempo di sosta obbligata
10 luglio 2020

Nel lungo tempo della quarantena, scandito in diverse fasi a seconda dell’andamento del contagio, si sono levate voci autorevoli che hanno cercato di offrire agli uomini smarriti qualche parola di conforto e lenimento, di speranza e di meditazione. Certo, accanto a queste si sono ascoltate anche voci più legate al contingente e alla superficie, ma le parole che hanno davvero concesso nutrimento a menti e cuori sono state quelle che si sono messe a servizio dell’umano, smobilitando narcisismi autoriali e autoaffermazioni culturali, andando invece alla scuola dei grandi pensatori e offrendoli come guide per i mesi della paura e del disorientamento.

Tra queste voci autorevoli emerge con quieta forza quella di Carlo Ossola, professore al Collège de France, che ha dato alle stampe Per domani ancora. Vie di uscita dal confino (Firenze, Olschki, 2020, pagine 78, euro 10). Il libro, di rara profondità, racchiude alcune delle riflessioni che l’autore ha condiviso sui giornali e in Internet nella primavera del covid-19, aggiungendone alcune inedite, e tracciando così il suo itinerarium nel tempo del contagio. Quello delineato da Ossola è un sentiero sulla mappa dell’oggi che avanza verso la cura del sé, rivolto cioè non tanto alla lettura degli eventi, ma ad intra, poiché «non si tratta dunque di ripopolare il deserto della forma, ma di dare ai nostri gesti il rinnovato senso dell’attesa, di un “largo” che troveremo al fondo, ma al fondo di noi». Il passo è quello dei sapienti: trasformare l’evento fortuito, non previsto, che ha i tratti della sofferenza, in “occasione”: occasione per vivere con maggiore attenzione (nel senso pieno inteso da Simone Weil) il quotidiano che abitiamo: «Poso finalmente i miei occhi e mi lascio guardare da ciò che mi circonda, spesso oggetti che avevo neutralizzato alla vista». Così il guardare fuori di sé diventa occasione propizia per volgersi nell’intimo: «Comincio a constatare quanta parte della mia vita se ne sia andata, nella ricerca di un altrove, così fugace, rispetto alla zolla dell’hic et nunc».

Prendersi cura di sé è l’imperativo che soggiace alle pagine di Ossola — secondo quell’Umanesimo di cui l’autore è rimasto fedele e devoto cultore —, pagine che si snodano tra numerosi riferimenti a una ricca tradizione culturale, sempre viva e sempre capace di forza generativa. Da qui nasce, dunque, l’ascolto dei classici, maestri impareggiabili, «libri radicali» perché «libri del sempre, della dignità di essere uomini». Così il lettore è accompagnato tra le massime di Marco Aurelio e le storie di Ovidio, cantore dell’ospitalità nel mito di Filemone e Bauci, tra la saggezza di Gregorio Magno — che nella Vita di san Benedetto ci invita alla comprensione, cioè all’«abbracciare ad unità» che non si ferma su ciò che ci circonda, ma indirizza all’«intelligenza interiore» — e la poetica altezza di Dante, riletto con la lente di una meravigliosa pagina di Flannery O’ Connor: «Io vorrei essere una mistica, e anche subito. Nonostante ciò, caro Dio, concedimi un posto, per piccolo che sia, e fa che io lo rispetti. Se fossi quella cui compete di lavare ogni giorno il secondo gradone, fammelo sapere, e fa che io lo lavi con un cuore traboccante d’amore», richiamando nel secondo gradone, che era «tinto più che perso» (Purgatorio ix, verso 97) proprio l’ingresso al Purgatorio dantesco. È questo il segno di un’humilitas che è servizio alla terra, e quindi all’uomo. Così la professione di umiltà di Flannery O’ Connor conduce il lettore alla sezione delle «virtù minime», cioè quelle virtù, umili appunto, che sono da coltivarsi in tempo di sosta obbligata.

Qui si comprende a pieno che la «via di uscita dal confino» indicata da Ossola non è volta a un quieto intimismo indifferente all’altro, bensì essa invece comincia dalla cura del sé perché l’uomo diventi poi custode del volto dell’altro, consapevole che, secondo la nota massima di Tommaso d’Aquino, «ogni bene è di sé diffusivo»: è l’invito a uno sguardo rinnovato, che sappia cogliere il bene persistente, che porta all’emulazione, sapendo, ad esempio, che il virus ha portato a un aumento della solidarietà, distanziando in tal modo il nostro tempo dagli egoismi cantati da Tucidide nei mesi della peste ateniese.

Da quel bene che si dilata si passa poi alle altre virtù: dodici quelle rilette, tra cui la pazienza, la simpatia, l’ironia, la cordialità, la dolcezza, la dedizione, così attuale tra le corsie dei luoghi di cura: «Queste giornate ci consegnano altre dedizioni, di carne sofferente: di suore, infermiere, badanti che muoiono a decine, negli ospizi, con i loro assistiti, infermi, spesso neppure più lucidi, inermi». Morti che raccolgono tutta la custodia dell’altro, dimenticando il proprio io: «Muoiono nella gloria del dévouement, del se vouer, del votarsi, vincolarsi per sempre al fine ultimo dell’uomo: la dignità di ogni vivente». La dedizione è compagna della responsabilità, che è «la capacità di rispondere e dunque di assumere l’iniziativa di un dialogo, di un contatto, di una risposta a una richiesta». Viviamo una società che registra carenze di responsabilità perché manca di ascolto, perché fatica a praticare «le possibilità di andare incontro a un numero maggiore di persone». Questa è la responsabilità vera, non da intendersi pertanto come un mero esercizio di potere e facoltà, ma come un vincolarsi «fino al sacrificio», come accade in Cristo, «plenitudine della responsabilità» poiché volle «rispondere di tutti».

Indugiando su queste virtù minime (complementari alle piccole virtù di cui Carlo Ossola ha recentemente parlato ne Il trattato delle piccole virtù), l’uomo sarà aiutato a cogliere l’occasione presente, valorizzandola come kairos di nuova civiltà, sancendo la «fine della società liquida, vaporosa, dedita all’estensione piuttosto che all’interiorizzazione» e passando dalla contrapposizione tra “globale” e “locale” alla dialettica armonica e convergente tra “universale” e “essenziale”. Perché universale è «ciò che ci orienta [“uni-versus”] nella stessa direzione, verso uno scopo comune, a partire dalla stessa condizione umana», mentre «essenziale» è «definire la persona singolare in ciò che ha di più comune e suscettibile di condivisione». Dunque un “io” aperto a un “noi”, e un “noi” che non oblia né calpesta l‘’’io”. Si innesta qui la riflessione di Ossola sull’Europa, chiamata a non spegnere la sua più autentica vocazione, poiché essa «non è la somma dei suoi stati, delle sue lingue, delle sue tradizioni», ma è luogo concreto e ideale in cui si è manifestato «il primato dell’avvenire sulle miserie e l’egoismo propri del presente di ogni epoca». Qui stanno le fondamenta dell’Europa e le sue ragioni d’essere, sempre da alimentare, da rinnovare, da rimettere in moto.

È questa la «freschezza di un pensiero “radicale”, cioè vicino alle radici, che cerchi le linfe direttamente alle radici», un pensiero che sappia «pulire dai rovi, per aprire» — secondo Maria Zambrano — «Claros del bosque» o, secondo Italo Calvino, che «cominci a crescere dal di dentro».

Di questa radicalità, che è dedizione all’umano, il mondo ha oggi urgente bisogno.

di Sergio Di Benedetto