· Città del Vaticano ·

In cammino verso Santiago de Compostela nella festa di san Giacomo il Maggiore, apostolo

Dove il cielo e la terra si abbracciano

*OR* Santiago de Compostela, Spagna, la statua di San Giacomo nel portico della Cattedrale
24 luglio 2020

Celebriamo la festa di san Giacomo maggiore, uno dei tre apostoli che insieme a Pietro e Giovanni visse una speciale intimità con Cristo. In Spagna, infatti, spesso lo si invoca come Santiago, “l’amico del Signore”.

La speciale amicizia di questi tre discepoli con Gesù spiega il fatto che solo essi fossero presenti in alcuni momenti della sua vita, secondo il racconto dei Vangeli: alla risurrezione della figlia di Giairo, alla Trasfigurazione, nella notte del Getsemani. La città di Santiago de Compostela in Spagna è una delle sedi apostoliche della cristianità: vi si venerano i resti dell’apostolo e vi giungono ininterrottamente in pellegrinaggio da tutte le parti del mondo innumerevoli uomini e donne da più di dieci secoli. Anche quest’anno, nonostante la crisi mondiale del covid-19 e tutte le restrizioni e i protocolli che ha portato con sé, continuano ad arrivare pellegrini in questo luogo di grazia, dove cielo e terra si abbracciano.

Esistono diverse interpretazioni per spiegare l’origine del nome della città.

La più conosciuta, anche se poco probabile, è quella che prende le mosse dalla tradizione medievale sul ritrovamento del sepolcro che conteneva i resti dell’apostolo. Si racconta infatti che all’epoca della piena fioritura dell’eremitismo visigotico spagnolo, nel ix secolo e nell’unica zona della penisola iberica praticamente libera dall’invasione islamica, si verificò il fenomeno di uno strano splendore, come di stelle che cadevano su una collinetta del bosco Libredón, a segnalare un luogo ben preciso. Alla fine il vescovo di Iria Flavia, Teodomiro, informato del prodigio, nel luogo illuminato dalla misteriosa luce notturna trovò l’antica e dimenticata tomba di Santiago, l’apostolo che secondo la tradizione cristiana era giunto sino a Finisterrae per portare l’annuncio del Vangelo. Il suo corpo era segretamente ritornato da Gerusalemme via mare per trovare riposo in questa terra. Così, la parola Compostela deriverebbe dal termine latino campus stellae, il campo delle stelle.

Ma al di là della fondatezza etimologica, quel che è certo è che sul Cammino di Santiago la terra e il cielo sono uniti in una maniera misteriosa. A partire dal medioevo, la moltitudine di stelle della Via Lattea erano come le frecce gialle che oggi i pellegrini di tutta Europa seguono per arrivare fino al Monte della Gioia. In quel punto le torri della cattedrale contemplate da lontano per la prima volta con i propri occhi dirigevano gli ultimi passi del viandante verso la meta. Il cielo pertanto guidava gli uomini nella notte di questo mondo e per camminare sicuri a non perdersi si poteva unicamente guardare con attenzione verso l’alto.

Anche oggi, per coloro che camminano con la garanzia di tutte le indicazioni che segnalano la strada, grazie alle guide e ai cellulari, si verifica questo paradossale miracolo: che la terra inviti il pellegrino a guardare il cielo perché la meta di questo viaggio non è in realtà un luogo di più in questo mondo: chi lo compie gusta qualcosa dell’eterno.

E poiché gli apostoli sono i più vicini della catena che ci unisce a Gesù, attraverso coloro che videro, toccarono, contemplarono il suo corpo crocifisso e risorto, la carne del Figlio di Dio — il Dio fatto uomo e così l’uomo fatto Dio — siamo introdotti anche noi misteriosamente nel mistero dell’incarnazione.

Esiste una pedagogia propria del cammino di Santiago per cui, grazie al contatto più stretto con il mondo, con la densità dell’umano — il proprio corpo e la voce del cuore — grazie alla compagnia degli altri pellegrini, con la tradizione della fede e la storia che hanno forgiato questa via per secoli, si percepisce una speciale presenza del Dio che ha scelto questa terra e l’essere umano come sua dimora.

Man mano che si avanza e ci si addentra nel cammino, discendendo i Pirenei, percorrendo i campi dorati della Meseta, scalando i monti di León e della Galizia, nella concentrazione imposta dal fatto stesso di camminare, dalla solitudine, dal silenzio e dall’oscurità in cui ogni giorno, molto presto, quando ancora l’alba non si è levata, il pellegrino inizia la giornata, sgorga un desiderio di trascendenza, di assoluto, di dialogo con il Mistero che illumina un senso nuovo, una ragione nuova per continuare a camminare.

E mentre pellegrini sono a contatto con la polvere della terra si risveglia in loro la sete di Dio: si incontrano con se stessi, con le proprie domande, con le ferite, e anche con un gran numero di compagni di viaggio, con la bellezza di questo mondo che li circonda, e si aprono all’incontro con il Dio vivo. Entrano in chiese silenziose e solitarie dove segretamente Qualcuno li aspetta e parla al loro cuore. Persino lo zaino pesante che portano sulle spalle e ancor di più il peso che portano nel cuore li spinge verso l’alto, perché ogni preoccupazione, inquietudine, dolore o domanda che hanno motivato il cammino in un dato momento, si trasformano in preghiera, supplica, parola di gratitudine o di lode, gesto di affidamento o gemito e lacrima di misericordia dinanzi a Dio.

È questa la grazia del pellegrinaggio cristiano, che la terra si trasforma in uno spazio teologico, ciò che è veramente umano risplende di eternità, la notte si fa chiara come il giorno e la forza segreta per vivere e lottare in questo mondo s’incontra nella vicinanza al cielo e nella presenza amica di Dio, che ha voluto lasciarsi incontrare e riconoscere nelle viscere di questo mondo.

di Carolina Blázquez Casado
Priora del Monasterio de la Conversión (Sotillo de la Adrada, Ávila, Spagna)