· Città del Vaticano ·

Dalla parte di Esaù

«La lotta di Giacobbe» (Duomo di Monreale, XII-XIII secolo)
15 luglio 2020

«O Eterno, non lascio la tua mano, la tua dura mano, prima che tu mi abbia benedetto. Benedici me, tua umanità, che soffre, soffre per il tuo dono di vita! Me per primo che tanto ho sofferto, che tanto ho sofferto per il dolore di non poter essere quello che volevo». Così, sulla scia dello stupendo racconto notturno della lotta di Giacobbe col mistero, il drammaturgo svedese Johan Auvgust Strindberg (1849-1912) faceva pregare un suo personaggio nella sua ultima opera teatrale Grande strada maestra (1909). Questa scena ha da sempre colpito l’umanità per tutti i significati che si annidano in un testo molto complesso e stratificato e per tutti quelli che da esso si possono far derivare. Nel midrash giudaico, ad esempio, quel messaggero divino diventa lo spirito protettore di Esaù che svela a Giacobbe le sue colpe: il torto fatto al fratello, quello inflitto a Lia, la moglie poco amata, l’eccessiva predilezione per Giuseppe. Nell’arte paleocristiana la lotta è modellata, invece, sugli antichi gruppi statuari dei lottatori della classicità greco-romana. Indimenticabile è, poi, la straordinaria mobilità del fronteggiarsi di Giacobbe e dell’angelo nella tela di Rembrandt (1659), conservata a Berlino, certamente più intensa rispetto alla raffigurazione classicheggiante di Eugène Delacroix che è stata affrescata a San Sulpizio di Parigi tra il 1853 e il 1861 o all’olio su tela di Marc Chagall.

Una considerazione ulteriore vorremmo riservare, però, a un dipinto che personalmente abbiamo sempre ritenuto un’originale «esegesi» del passo biblico. Intendiamo riferirci all’olio su tela intitolato La visione dopo il sermone che Paul Gauguin dipinse tra l’agosto e il settembre 1888 a Pont-Aven in Bretagna, varcando il confine del naturalismo impressionistico per penetrare nell’orizzonte dell’immaginazione, del simbolismo e della memoria. L’eventuale connessione cromatica con La mietitura (o Paesaggio bretone) che nello stesso anno aveva dipinto il postimpressionista Emile Bernard, il rimando alle immagini devozionali popolari di Epinal, l’impostazione spaziale della scena mutuata forse da Degas e persino l’influsso dell’arte giapponese nell’evocazione vegetale (i manga di Hokusai) non diminuiscono ma esaltano la straordinaria originalità di quest’opera a matrice biblica (anche se Gauguin riconobbe di essersi ispirato pure a un brano dei Miserabili di Victor Hugo sul travaglio interiore tra il male istintuale e la coscienza morale nel forzato Jean Valjean).

Tuttavia fondamentale rimaneva per l’artista il racconto biblico, presente nel lezionario liturgico di quel periodo dell’anno, e il legame con un dato del folclore popolare, ossia la gara dei giovani di quella cittadina per reggere in processione lo stendardo della festa di san Nicodemo, patrono di Pont-Aven. Per delineare l’iconografia del dipinto ricorriamo all’auto-testimonianza dello stesso Gauguin in una lettera indirizzata a Vincent van Gogh nel settembre del 1888, a opera ormai conclusa. In primo piano, con le caratteristiche cuffie «bianco-gialle molto luminose», pregano e contemplano «alcune donne bretoni vestite di un nero molto cupo, mentre la tela viola scuro è sbarrata da un albero di melo». Giungiamo, così, al cuore del quadro, la lotta di Giacobbe, collocata su «un terreno vermiglio puro» e ingaggiata con un «angelo vestito di blu oltremare intenso, mentre il patriarca è abbigliato in verde bottiglia». Sotto il melo, ecco una vacca «che si sta impuntando e che è piccola rispetto al reale».

A questo punto, oltre l’analisi strutturale e cromatica, Gauguin introduce un aspetto interpretativo, quello dello svelamento «nei volti di una semplicità rustica e superstiziosa» (questo aggettivo è da intendere nel senso di “pietistico”). Ma egli va oltre, sempre dialogando con van Gogh, e introduce in modo molto significativo il contrasto tra il mondo concreto, naturale e sensoriale del primo piano e la vicenda soprannaturale della lotta. Così realtà quotidiana e visione s’intrecciano: la narrazione biblica ascoltata durante l’omelia del sacerdote in chiesa si attualizza, agli occhi delle donne credenti, nella piazza del loro paese. Potremmo affermare che, secondo la concezione del pittore, si vuole rappresentare, attraverso la metafora biblica, il processo di trasfigurazione ideale della realtà, tipico della pittura simbolista. In sede teologico-spirituale potremmo invece dire che si raffigura la forza performativa della Parola sacra che dall’atto celebrativo liturgico trapassa efficacemente nella quotidianità dell’esistenza storica del fedele e della comunità. L’incontro con Dio non si consuma solo nel rito, ma soprattutto nella vita e vi lascia una traccia, perché il credente non ne esce indenne ma colpito, come fu per Giacobbe segnato all’anca.

Considerando, dunque, questo dipinto di Gauguin come un emblema del modello artistico attualizzante-trasfigurativo della pagina biblica, non possiamo ignorare che il testo scritturistico ispiratore è stato in altre forme un costante riferimento simbolico per la cultura anche a noi più vicina. Già alcuni saggi del volume che ora abbiamo tra le mani confermano, attraverso questo racconto della Genesi, la reiterata convinzione secondo la quale la Bibbia è il «grande codice» della civiltà occidentale, per usare la famosa espressione coniata da William Blake e adottata a titolo omonimo del suo importante studio da Northrop Frye (1982), dedicato proprio a identificare i canoni della correlazione tra le Scritture e la cultura occidentale. Accenniamo solo per allusione a pochi esempi recenti.

Il poeta russo Majakowski considerava lo scontro notturno di Giacobbe come una parabola della sua ricerca e del suo rifiuto religioso. La lotta era espressione per lui di una dialettica ironica e aggressiva con Dio: «È risaputo: tra me e Dio ci sono moltissimi dissensi» scriveva. Ma al tempo stesso affiorava la certezza di una presenza: «Qui vive il sovrano del tutto, mio rivale, mio insuperabile nemico». Naturalmente, diverso è il senso del brano biblico per il Jacob (1970) del poeta cristiano francese Pierre Emmanuel: «Perché l’esito del combattimento sia senza dubbio, bisogna che Dio non possa nulla sull’uomo e l’uomo tutto su Dio. Così Dio lotta in forma d’uomo, avendo soltanto come attributi di maestà il nostro sigillo regale, la faccia umana».

E se lo scrittore contemporaneo marocchino di lingua francese Tahar Ben Jelloun usa in filigrana il racconto biblico in Creatura di sabbia (Einaudi 1987) per indicare lo scontro tra il protagonista e uno spirito misterioso, il teologo Harvey Cox osservava che «il nome, cioè la realtà, del nuovo popolo, Israele, non è costituito più in base alla fedeltà, ma piuttosto in ragione della lotta con Elohim-Dio».

Ma, come si è annunciato, noi vorremmo riandare un po’ esegeticamente e un po’ spiritualmente, al testo biblico nella sua nudità. Diamo innanzitutto uno sguardo al suo insieme, a partire dal contesto angoscioso che lo inquadra. Giacobbe esule sta per affrontare una tappa decisiva della sua vita, il ritorno nella terra dei suoi padri, dopo l’esilio presso Labano di cui aveva sposato le figlie Lia e Rachele. Nell’aria si sente il minaccioso avvicinarsi del clan del fratello tradito, Esaù. Egli si incammina verso la notte e verso il confine, segnato da un affluente transgiordanico del fiume principale della terra promessa, il Giordano: lo Iabbok con le sue rive spumeggianti diventa una specie di Getsemani per il patriarca, è il luogo della sua «agonia» che, come dice l’etimologia del termine greco, significa «lotta, combattimento». E probabilmente — secondo l’ipotesi comune degli esegeti — è la Tradizione Jahvista a costruire la narrazione ma su materiali arcaici diversi e con diverse amplificazioni successive. Cerchiamo prima di tutto di definire queste componenti antiche e varie. Un primo dato indiscutibile dal sapore piuttosto mitico — ma rielaborato poi nella rilettura teologica successiva «Jahvista» — è quello dello spirito o del demone che impedisce il passaggio del fiume. Potrebbe essere un ricordo leggendario locale trasfigurato, connesso al «fiume blu» (tale è il valore del toponimo Iabbok), al suo «spirito» o demone, cioè alla difficoltà della sua traversata. L’uomo combatte contro questo dio del fiume che col suo tocco magico lo blocca ma la vittoria, a prima vista, sembra arridere all’uomo che gli ghermisce una benedizione, una forza vitale. Si pensi un po’ anche alla leggenda cristiana di san Cristoforo o al motivo del demone potente solo di notte che all’aurora perde la sua forza, un soggetto presente anche nell’Anfitrione di Plauto o nel primo atto dell’Amleto shakespeariano.

A questo elemento folclorico dobbiamo aggiungerne un altro evidente, quello della prescrizione alimentare — per altro ignota al resto dell’Antico Testamento — che vieta di cibarsi di una parte di carne contenente il nervo sciatico. È noto che sono varie queste regole, spesso di matrice ancestrale, che proibiscono l’ingresso in tavola di alcune pietanze. Secondo alcuni sarebbe un’aggiunta post-esilica che cercherebbe di giustificare una prassi giudaica: forse l’aggiunta avrebbe identificato nella slogatura al femore di Giacobbe l’eziologia simbolica di questa consuetudine.

Non mancano altri elementi, forse accessori, coordinati poi dal redattore finale in una trama sufficientemente armonica. C’è infatti, un’altra evidente eziologia, quella del nome geografico Penuel, «volto di Dio»: «Ho visto Dio faccia a faccia» afferma infatti Giacobbe. C’è anche un’ulteriore eziologia, quella del nome del popolo ebraico, Israele, che viene popolarmente interpretato come un «contendere con Dio»: «Hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto». In realtà, il significato genuino «filologico» è incerto: «Dio sincero, splende, salva, regna, combatte», oppure «che Dio combatta!» o altro ancora.

Certo è che il nome è applicato a Giacobbe in modo artificioso — in realtà è esclusivamente un nome tribale — per affermare la connessione delle dodici tribù e quindi dell’intera nazione coi patriarchi. È noto che la prima attestazione epigrafica del nome «Israele» si trova nel cantico di vittoria del faraone Merneptah, nella cosiddetta «stele d’Israele» del suo tempio funerario presso Tebe (ora conservata al Museo Egizio del Cairo). Databile attorno al 1225 avanti Cristo, essa afferma che in occasione della ribellione di alcune città palestinesi, il faraone, figlio di Ramses ii, avrebbe vinto anche la tribù d’«Israilu»: «Israele è distrutto, non ha più seme». Molti hanno visto in questo dato una menzione encomiastica faraonica dell’esodo d’Israele dall’Egitto.

Un ultimo elemento secondario, tra i molti finora elencati, potrebbe essere quello «nazionalistico», formulato attraverso l’esaltazione della forza dell’eroe eponimo di Israele, così come nel capitolo 27 si era esaltata la sua astuzia. In questa celebrazione si riflette certamente l’orgoglio delle tribù ebraiche che vedevano rispecchiata nell’antenato la loro storia. Concretamente la misteriosa lotta sarebbe il segno di una prova dura che il patriarca supera; sulla base di questa vittoria egli viene costituito capostipite dell’intero Israele. Il primo elemento da mettere in luce è certamente quello della fede nella promessa divina. L’accumularsi dei simboli negativi è evidente: la notte, il fiume impetuoso, l’essere misterioso, la lotta serrata (...) Lo scontro notturno ha, allora, il senso di anticipare in modo prolettico la vittoria di Giacobbe su tutte le forze oscure che lo assediano per far brillare il compimento della promessa di Dio.

di Gianfranco Ravasi