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La persecuzione della Chiesa greco-cattolica ucraina in un’intervista all’arcivescovo Borys Gudziak

Dall’esperienza della clandestinità intuizioni per il presente

Suore di San Vincenzo de’ Paoli nella clandestinità
09 luglio 2020

Un libro fotografico per illustrare e studiare la vita clandestina della Chiesa greco-cattolica ucraina, la persecuzione, e documentare l’eredità dei suoi martiri e confessori della fede: Perseguitati per la verità. I greco-cattolici ucraini dietro la cortina di ferro (Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 2019, pagine 184, euro 39) è il frutto di un progetto di ricerca iniziato dall’Istituto di storia della Chiesa dell’Università cattolica ucraina, che ha sede a Lviv (Leopoli). A parlare di questa storia di morte e di salvezza, in una lunga intervista in cui si sofferma sulla capacità da parte della comunità dei credenti di superare un’oppressione brutale custodendo la propria libertà interiore, è l’arcivescovo di Philadelphia degli Ucraini, Borys Gudziak, metropolita della Chiesa greco-cattolica ucraina negli Stati Uniti.

A partire dal 1948 la Chiesa greco-cattolica ucraina fu interdetta in tutta l’Unione sovietica. Perché Stalin prese questa decisione?

La liquidazione della Chiesa greco-cattolica ucraina è avvenuta nel contesto della tragedia subita dagli ucraini nel XX secolo. L’Ucraina era al centro delle “terre di sangue”, per usare l’espressione dello storico Timothy Snyder. Due guerre mondiali e lo scontro fra due totalitarismi — quello sovietico e quello nazista — l’avevano resa, fra il 1932 e il 1945, il posto più pericoloso della terra. Solo per dare qualche cifra: dal 1914 al 1945, in Ucraina, circa quindici milioni di persone furono uccise o morirono in modo non naturale. Tutte le comunità religiose furono perseguitate in modo feroce. In tutta l’Unione sovietica il numero dei vescovi ortodossi attivi, tra il 1917 e il 1939, passò da cento a quattro; oltre 160.000 esponenti del clero ortodosso furono arrestati durante le purghe del 1937-1938 e più di centomila vennero uccisi. L’Holodomor, la carestia del 1932-1933 creata artificialmente nell’Ucraina centrale e orientale con 4 milioni di morti, fu seguita dall’epurazione delle élites politiche, militari e culturali voluta da Stalin tra la metà e la fine degli anni ‘30. Fino a 7 milioni di abitanti dell’Ucraina sono morti a causa della seconda guerra mondiale, tra cui circa un milione di ebrei nella Shoah, cioè il 16 per cento della sua popolazione del 1939. Per dare un termine di paragone, le perdite di altri paesi in guerra furono dell’1,5 per cento per la Francia, dell’1,1 per l’Italia, dello 0,9 per il Regno Unito, dello 0,3 per cento per gli Stati Uniti. Il fronte nazi-sovietico attraversò l’Ucraina due volte. Questo è lo scenario dell’esperienza traumatica dei greco-cattolici, allora concentrati nell’Ucraina occidentale. Dopo aver espulso Hitler dall’Europa orientale nella primavera del 1945, Stalin cercò di consolidare il territorio appena occupato e di sottometterlo al dominio sovietico. Il terrore, già usato sistematicamente da due decenni per eliminare qualsiasi nemico, fu applicato nel caso della Chiesa greco-cattolica ucraina. I greco-cattolici avevano profonde radici nella società e ampi legami a livello internazionale. Sia le radici che la comunione dovevano essere recise in modo da manipolare e gestire la popolazione appena conquistata.

Come si susseguirono gli eventi?

L’attacco principale alla Chiesa greco-cattolica ucraina fu sferrato nel 1945-1946. L’11 aprile 1945, prima che la guerra in Europa fosse ufficialmente finita, vennero arrestati tutti i vescovi cattolici ucraini, tranne uno, imprigionato più tardi. Un anno dopo, nel marzo del 1946, le autorità sovietiche liquidarono tutte le strutture della Chiesa organizzando uno pseudo-sinodo in cui 216 sacerdoti, radunati sotto la minaccia delle armi, votarono per abrogare l’unione con Roma e unirsi alla Chiesa ortodossa russa, sebbene l’Ucraina occidentale e la sua Chiesa, con allora alle spalle 950 anni di storia cristiana, non fossero mai state sotto Mosca se non per un breve periodo di occupazione durante la prima guerra mondiale. I membri del clero che rifiutarono di accettare la liquidazione della loro Chiesa furono arrestati e deportati nei campi di lavoro in Siberia, insieme alle loro famiglie. Alcuni vescovi, sacerdoti, religiosi e laici sono diventati martiri e venticinque di essi sono già stati beatificati da san Giovanni Paolo II nel 2001. Tutte le proprietà della Chiesa furono confiscate: chiese, scuole, monasteri, le case editrici, istituzioni di servizio sociale e di beneficenza, tutto fu perduto.

Quale fu la reazione dei fedeli?

Il XX secolo per l’Ucraina è stata una storia di traumi e di terrore. Fra le vittime della guerra, la fuga di centinaia di migliaia di rifugiati verso l’Europa occidentale e le deportazioni messe in atto da Stalin, l’Ucraina occidentale perdette più di un terzo della sua popolazione. Quelli che rimasero erano così traumatizzati da non essere in grado di una protesta efficace. Bisogna anche tener conto che nell’Unione sovietica gran parte della ferocia non poteva essere riconosciuta nei discorsi pubblici e persino in quelli privati. Questo dramma è rimasto — e in una certa misura rimane — senza riflessione, le morti senza lutto, la violenza senza perdono e le cicatrici senza guarigione. I modelli di pensiero, i riflessi, gli atteggiamenti hanno subito uno stress profondo e, forse, una frattura. Questa esperienza totalitaria va presa in considerazione nella riflessione sugli eventi che hanno preceduto e seguito lo pseudo-sinodo e persino alcuni sviluppi nella vita politica, sociale e religiosa dell’Ucraina di oggi, e sono convinto che possa spiegare vari fenomeni nell’esperienza umana globale contemporanea. A esempio, la situazione degli afro-americani che in passato hanno sofferto secoli di schiavitù; ma le ingiustizie e il razzismo permangono, come è emerso nuovamente con forza negli ultimi tempi.

Come venne creata la rete clandestina?

La stretta totalitaria e il terrore assoluto del dopoguerra resero quasi impossibile lo sviluppo di una clandestinità attiva fino alla morte di Stalin, nel 1953. Tutti i vescovi e gran parte dei sacerdoti erano in Siberia. Il clero che era rimasto era stato costretto a servire nelle strutture della Chiesa ortodossa russa, che incamerò gli edifici della Chiesa cattolica orientale. Anche la Chiesa cattolica latina fu falcidiata. Dopo la morte di Stalin, fu permesso il ritorno dalla Siberia ad alcuni vescovi e sacerdoti esiliati. Proprio loro, dalla metà degli anni ’50, iniziarono a creare una rete di piccoli gruppi clandestini per mantenere la successione apostolica e amministrare i sacramenti. Ma il numero di persone alle quali negli anni ’60 e ’70 il clero clandestino poteva prestare servizio con regolarità era meno del 5 per cento della popolazione greco-cattolica di prima della guerra. Nel 1989 i sacerdoti, da circa tremila, erano scesi a trecento, con un’età media di 70 anni, il che significa che l’esperienza della Chiesa greco-cattolica clandestina coinvolgeva meno di 30.000 persone.

Lei ha potuto conoscere tanti membri della Chiesa clandestina. Quale è stata la sua impressione?

La loro determinazione a custodire il dono di Dio della dignità umana e la fedeltà in circostanze quasi impossibili è stata per me profondamente commovente e stimolante. La gente aveva sete di Dio, i sacerdoti erano testimoni coraggiosi, i vescovi diretti e semplici nelle loro relazioni. Grazie alla loro relazione filiale con Dio hanno custodito la fede e resistito al tentativo di controllo totale della loro vita. L’Unione sovietica non è stata solo un esperimento politico, ma antropologico. Volevano creare un nuovo essere umano — l’homo sovieticus — controllato non solo negli atti esterni ma anche nelle disposizioni interiori. I confessori della fede e i martiri erano interiormente liberi. La loro speranza escatologica contestualizzava e dava senso alla loro sofferenza storica. Avevano una chiara comprensione del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto. Il segno della Pasqua di nostro Signore era sempre davanti ai loro occhi. Ecco perché hanno vissuto della promessa della risurrezione e della sua vittoria sul male e sulla morte senza dubitarne.

L’esperienza del totalitarismo è comune alle Chiese dell’Europa orientale. I primi anni di libertà hanno visto il fiorire di esperienze ecclesiali e la simpatia di cui le Chiese hanno goduto in questi contesti. Ora sembra che le Chiese vivano una certa stanchezza. Come lo spiega?

Le attrattive del mondo sono sempre una tentazione e contribuiscono alla perdita della concentrazione spirituale. Emergendo dalla repressione, molti cittadini di paesi ex-comunisti si sono rivolti alla Chiesa per saziare la fame delle loro anime. La Chiesa con la sua liturgia, la sua trascendenza e comunione era messa a confronto con la grigia estetica sovietica, con il freddo materialismo, con l’isolamento causato dal terrore. Ma con le nuove libertà sono arrivate anche nuove opportunità e beni di consumo che hanno generato euforie culturali e sociali, agitazione e frustrazione. Diversi elementi hanno costituito il contesto in cui la vita religiosa si è evoluta durante i primi anni di libertà, creando uno spazio di grandi speranze e aspettative, ma anche di tremende incertezze. Durante i primi cinque anni di indipendenza c’è stata un’esplosione di vita religiosa, ma non sempre la fede è stata profondamente assimilata a un livello personale. Nel mezzo del dinamismo e dell’instabilità sociali, valeva il detto ucraino: «Nei guai, le persone si rivolgono a Dio». La pietà non è stata necessariamente tradotta nella pratica delle virtù cristiane. La questione della qualità della vita religiosa contemporanea a livello globale, come pure nell’Europa orientale, è estremamente complessa e non può essere decifrata in modo semplice. Nel vedere realisticamente le difficoltà, siamo chiamati ad approfondire la nostra fede. Non sono la nostra bravura, le nostre strategie e i nostri sforzi che da soli porteranno frutto. Piuttosto di nuovo, come sempre, siamo chiamati a conformarci al Cristo pasquale. La libertà dal totalitarismo non doveva essere vista come un obiettivo finale. Era un nuovo inizio. Una chiamata alla conversione. Papa Francesco direbbe una “conversione pastorale”. Questa è la vocazione permanente della Chiesa e di tutti i cristiani.

Alcuni sostengono che, dopo la legalizzazione, la Chiesa greco-cattolica ucraina si sia precipitata a ricostruire le strutture, ma non abbia fatto una riflessione profonda sull’esperienza della clandestinità.

È una riflessione che è iniziata, ma non è ancora maturata. Il libro Perseguitati per la verità è solo uno dei tentativi. Un errore — teologico, tattico e spirituale allo stesso tempo — è stato quello di considerare il periodo della clandestinità come qualcosa di completamente anormale, e quindi da lasciare nel passato. Perciò a guidare la ricostruzione ecclesiale era forse la vita della Chiesa negli anni ’30 e una certa nostalgia per gli standard del periodo precedente alla persecuzione. Poiché la comunità che emergeva dalla clandestinità era così piccola, il grande afflusso di neofiti entusiasti ha sostituito in gran parte la fede delle catacombe forgiata dalla persecuzione. Oggi, guardando indietro al mondo della clandestinità, sono convinto che esso offra molte intuizioni sulla vita della Chiesa nel mondo postmoderno, che continua a emarginare l’esperienza cristiana. L’esperienza della pandemia, della quarantena e della chiusura delle chiese ci ha portato in circostanze che potrebbero essere vissute più spiritualmente se riflettessimo in preghiera sulla vita dei cristiani nei sistemi totalitari. Questo, inoltre, relativizzerebbe il nostro senso di difficoltà e ci aiuterebbe persino a sorridere.

Un risultato di questa riflessione è stato collocare l’esperienza della Chiesa clandestina alla base dell’approccio formativo dell’Università cattolica ucraina. Che cosa ha significato?

Lo sviluppo dell’Università cattolica ucraina sull’eredità dei martiri è stata una decisione consapevole e deliberata. L’Istituto di storia della Chiesa creato nel 1992 a Leopoli per studiare l’esperienza della clandestinità è stata la prima pietra della futura università. Questo istituto ha intrapreso un progetto di storia orale per registrare l’esperienza delle tre generazioni di cristiani clandestini. Era un compito molto delicato, che richiedeva anzitutto capacità di comunicazione interpersonale, di costruzione della fiducia. Poiché i membri della Chiesa clandestina avevano dovuto nascondere tutte le tracce della loro attività, era molto probabile che la storia del loro viaggio spirituale fosse perduta. I documenti del Kgb hanno preservato la storia della persecuzione, ma il nostro interesse principale era il modo in cui la Chiesa aveva vissuto nonostante la persecuzione, e questa storia era solo nei ricordi delle persone che l’avevano sperimentata. Pertanto, per un periodo di venticinque anni, l’istituto ha registrato 2.281 interviste, che trascritte ammontano a 150.000 pagine (cinquecento volumi di trecento pagine ciascuno), circa 9.000 foto e 5.000 altri documenti. Tutti gli studenti dell’università hanno incontrato rappresentanti della clandestinità. Il pensiero della leadership dell’università era questo: se i cristiani del periodo delle catacombe erano stati in grado di affrontare e superare la più grande sfida del XX secolo — il totalitarismo ateo che cercava di costruire una nuova antropologia distruggendo la persona così come è intesa dal Vangelo — noi, studiando la resilienza e i metodi di questi confessori della fede, impotenti ma spiritualmente vivi e creativi, possiamo avere intuizioni su come affrontare le sfide del XXI secolo. L’Ucraina contemporanea ha molti problemi. Uno dei maggiori problemi interni è la corruzione che pervade la politica, l’educazione, la sanità, la vita civile ed economica. Ci vuole molto coraggio per nuotare contro corrente. Il ricordo dei martiri è un seme per questo coraggio. L’università ha integrato la sottolineatura sui martiri ponendo l’accento anche sugli emarginati. Chi è ai margini? Ogni società e ogni comunità deve scoprire i suoi. Ispirata dalla radicalità dei martiri, l’università ha scelto di mettere al centro coloro che le comunità accademiche quasi sempre escludono, le persone con disabilità mentali. E, per strano che possa sembrare, sono proprio queste persone che possono operare una guarigione in società devastate da un trauma totalitario. Il terrore multigenerazionale crea una profonda sfiducia tra le sue vittime. Le persone indossano maschere per proteggersi dagli altri: hanno imparato che l’altro è pericoloso e non ci si può fidare. I nostri amici con bisogni speciali hanno doni speciali: non sanno indossare maschere o nascondere i loro sentimenti autentici. Con tutto il loro essere chiedono a chiunque incontrino: ma tu, puoi amarmi? Dal momento che questa è la più importante questione pedagogica, la comunità universitaria ha deciso fin dai suoi inizi, nel 1993-1994, di collocare i più marginalizzati al centro. Non per offrire loro un servizio sociale, ma per ricevere da loro istruzioni e ispirazioni per ricostruire autentiche relazioni interpersonali. La radicalità dei martiri ha aiutato la comunità universitaria a cercare modi radicali per guarire l’alienazione e la virtualità delle relazioni nel XXI secolo. Questo è solo un esempio di come l’esperienza della clandestinità si possa tradurre, mutatis mutandis, in metodologie per tempi e situazioni sociali completamente diversi. Credo fermamente che possano venir fuori molte altre esperienze.

Che cosa può imparare la Chiesa universale?

In tutto l’emisfero nord, la Chiesa diventa sempre più piccola. La scuola della clandestinità del XX secolo — una Chiesa ridotta a “piccolo resto” dalla persecuzione — può rivelarsi sempre più importante per il nostro futuro. Nella clandestinità c’erano molte intuizioni profonde. Le limitazioni costringevano a concentrarsi sull’essenziale. Ad esempio, la Chiesa era spogliata di tutti gli edifici di culto, scuole e monasteri, non poteva nemmeno sognare un’infrastruttura, quindi tutta l’energia era rivolta a favorire relazioni affidabili e un’autentica comunione. La clandestinità non era tanto un sistema di strutture, ma una rete di relazioni spirituali, talvolta anonime, perché conoscere il nome del tuo collega seminarista nella scuola clandestina di formazione sacerdotale era semplicemente ritenuto superfluo e potenzialmente pericoloso. Ma c’era anche un’autentica paternità e maternità spirituale nei seminari e nei monasteri clandestini. C’era un legame da cuore a cuore, centrato su Dio e mediato dallo Spirito Santo. Una domanda quotidiana per la clandestinità era come celebrare la liturgia, come pregare, trasmettere il Vangelo, con possibilità e risorse limitate. Oggi abbiamo bisogno di questo genio della Chiesa clandestina che univa fortezza e flessibilità. La sua creatività e il suo approccio innovativo richiedono maggiore attenzione e possono servire oggi come ispirazione per un rinnovamento vitale.

di Mariana Karapinka