· Città del Vaticano ·

Consumato per la Chiesa e la patria

epa05293825 Cardinal Jaime Ortega arrives to give a farewell mass as Archbishop of Havana, at ...
25 luglio 2020

Domenica 26 ricorre il primo anniversario della morte di colui che è stato arcivescovo dell’Avana per trentacinque anni e cardinale per cinque lustri. La sua morte è stata accompagnata dal dolore di quanti lo hanno conosciuto personalmente e da numerosi elogi alla sua feconda opera apostolica e civile. Ad esempio, si è ricordato che è stato l’unico arcivescovo a ricevere tre Papi: Giovanni Paolo II nel suo storico viaggio all’isola dei Caraibi del gennaio 1998, Benedetto XVI nel 2012 e infine Francesco nel 2015. Si è anche sottolineata la sua attiva partecipazione nell’avvicinamento tra gli Stati Uniti d’America e il suo Paese.

Questi sono, certo, momenti importanti della sua biografia, ma credo che ci sia stata una lacuna significativa nel commentare l’iter di un uomo di fede in Dio e nella Chiesa di Gesù Cristo. Ricordo negli incontri che ho avuto il privilegio di avere con lui, come non rifiutasse di rispondere alle domande che gli facevo sul suo profilo “politico”, ma preferisse comunque parlare della sua opera pastorale come arcivescovo e sacerdote.

Si è prestata poca attenzione al suo testamento spirituale. Un documento scritto di suo pugno dal cardinale — durante i giorni di ritiro trascorsi, nell’aprile 2017, nel convento di San Juan de la Cruz dei padri carmelitani nella provincia di Segovia, in Spagna — e consegnato in busta chiusa al suo segretario personale, Nelson O. Crespo Roque. Quest’ultimo lo ha reso pubblico il 14 gennaio 2020, intitolandolo Todo es nada, sólo Dios, «Tutto è nulla, solo Dio»: sono le ultime parole che Ortega ha pronunciato quando si è reso conto della sua prossima dipartita dalla vita terrena.

«Nelson — gli ha detto — conservalo come se fosse un testamento, aprilo solo dopo la mia morte, poi facci quello che vuoi: pubblicalo, strappalo o brucialo». Fortunatamente ha prevalso l’idea di renderlo pubblico. Le sue pagine sono scritte a mano, tutte d’un fiato, senza aggiunte né correzioni. In esse Jaime ripercorre la propria vita: un’infanzia e una prima adolescenza in cui, confessa, «sentivo la religione come qualcosa di molto distante da me. Dio, la fede, la religione, erano fuori dall’orizzonte della mia esistenza». A 15 anni c’era stato un cambiamento radicale e, dopo un colloquio con un padre carmelitano, aveva deciso di entrare nel seminario di Matanzas. Conclusi gli studi, il 2 agosto 1964, era stato ordinato sacerdote; aveva 28 anni. Nel 1978 era stato nominato vescovo di Pinar del Río e tre anni dopo — aveva appena compiuto 45 anni — Giovanni Paolo II lo aveva trasferito all’Avana come arcivescovo, incarico al quale aveva rinunciato nel 2016.

Ripercorrendo tutte le vicende della propria vita, all’ombra del sepolcro di san Giovanni della Croce, il cardinale scrive: «Questa è la storia piena di elogi di alcuni e di amare critiche di altri. In questa storia Cristo Gesù si è mostrato particolarmente buono e misericordioso con me. Mi ha aiutato a portare la Croce delle critiche, dei duri attacchi e delle incomprensioni dei miei fratelli cubani che vivono all’estero. Dei fedeli di Cuba ho sentito la vicinanza, l’affetto, l’ammirazione e la gratitudine. Ciò ha compensato le suddette sofferenze, che, comunque sono molto dure e tristi da sopportare perché penso alla Chiesa che viene contestata, persino nella figura del Santo Padre. Ogni visita di un Papa a Cuba è stata un’occasione per attaccarlo. Ma le sofferenze e le consolazioni nello svolgimento del mio ministero non costituiscono l’asse della mia riflessione. Sono solo ricordi brutti e belli».

Al termine della vita, nella domenica della Misericordia in cui scrive il proprio testamento, Jaime Ortega rivolge lo sguardo a Gesù, «mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, rifugio dove mi metto in salvo», e ascolta queste parole dal suo Salvatore: «Guarda, le mie piaghe ti hanno più volte guarito, ti sono stato accanto in questi lunghi anni. Io sono la ragione della tua perseveranza, non abbandono mai l’opera delle mie mani. Non sei tu a essere amabile, sono io colui che ama sempre e comprende e sostiene con il trionfo pasquale della misericordia, sono io colui che ti rende amabile». A essere «abissale — conclude nel testamento — non è la nostra miseria, ma Dio che ci rende creature nuove». Ammirevole testimonianza di un uomo che si è «consumato» per la Chiesa e per la sua patria cubana, alla quale ha prestato notevolissimi servizi di riconciliazione che la storia non potrà non riconoscere.

di Antonio Pelayo