· Città del Vaticano ·

Alla scuola del passato, dalla riflessione sulla società di Agostino alla «Laudato si’»

Come si affronta un cambiamento d’epoca?

Particolare della copertina del libro «Storia di dodici manoscritti» di Christopher De Hamel
25 luglio 2020

La grande lezione della storia consiste nel riuscire a separare quanto appartiene al passato da quanto è valore permanente e, quindi, foriero di sviluppi futuri. Già Agostino, con il De civitate Dei aveva intuito la separazione tra una città dell’uomo, che si dimostra storicamente condizionata e decade, e la città di Dio, principio interiore della stessa realtà, che, invece, permane nel cuore degli eventi. La Chiesa non si vincola a nessun sistema culturale, politico e sociale; e se l’impero romano finisce, essa deve saper trovare le modalità per nuove alleanze, per un futuro nuovo. Avito di Vienne intuisce la possibilità di un futuro grande impero, quando scrive a Clodoveo, quasi pronosticando l’esordio dell’impero carolingio, alternativa allo stesso impero d’oriente. E poi, come lascia intuire sempre Agostino, la realtà si evolve non grazie a sistemi, a strategie, sempre destinate a invecchiare e a sparire, ma in virtù di scelte maturate nel segreto della coscienza: amor Dei usque ad contemtum sui; amor sui usque ad contemtum Dei. Il discrimine tra civitas Dei e civitas diaboli, regno del divisore, è l’assolutizzazione dell’essere umano, di sé stessi, il rendersi esclusivi, o, invece, il riconoscimento della signoria di Dio sulla storia.

È merito del concilio Vaticano II l’aver riscoperto la categoria della storia, riconoscendola come elemento dinamico della stessa verità. La salvezza si dà nella storia. Occorre un balzo in avanti, aveva affermato Giovanni XXIII, nel discorso di apertura dell’assise conciliare. Occorre una conciliazione con quella modernità, nata nel corso dell’era della scienza e dei cambiamenti sociali, economici e politici, che la Chiesa non aveva saputo riconoscere come segni dei tempi. I primi a realizzare che c’era una storia che correva fuori della Chiesa, spesso davanti a essa e talvolta anche contro di essa, erano stati però gli iniziatori dell’Azione cattolica. Sono essi ad inaugurare il metodo: «vedere, giudicare e agire», perché riconoscono che ogni azione e ogni pensiero può essere innescato solo da una osservazione della realtà che sta fuori della chiesa, la quale ancora si percepisce società perfetta. Anticipano così quell’idea della Gaudium et Spes, di un mondo che è speculare alla chiesa e senza il quale la chiesa non può riconoscersi, orientarsi e trovare la via verso il Regno dei Cieli. La chiesa anzi deve chiedere aiuto al mondo, alle scienze, alle arti; deve chiedere aiuto a tutti, onde poter cogliere il senso degli avvenimenti, che serve a svelare la stessa parola, a far progredire la conoscenza della verità. Impegnata in questa osservazione, l’Azione cattolica, soprattutto la Gioventù operaia di Azione cattolica francese (Joc), avverte perciò la necessità di modificare una Chiesa aristocratica, che impedisce di credere a quel popolo di proletari che, nella solidarietà tra lavoratori, indica una comunione e un senso di popolo, appunto, che le élite non riescono a percepire. Anche grazie all’esperienza di alcuni preti e frati, deportati nei campi di lavoro tedeschi, si giunge così alla stagione effervescente dei preti operai. Non più solo osservare la realtà con questionari e inchieste, ma immersione in essa, giocandosi la vita nelle contraddizioni delle problematiche lavorative del cosiddetto “boom economico” postbellico. Si scopre così che quell’osservare esterno e militante di Azione cattolica non riesce a cogliere la realtà.

Sotto l’influsso di una critica all’osservazione chiastica della realtà, che partiva già viziata da preconcetti confessionali, talvolta anche propagandistici, nasceva allora, soprattutto per iniziativa di Emile Poulat, lui stesso prete operaio e storico del movimento dei preti operai, l’idea di fondare una Sociologia religiosa, che si avvalesse di un metodo rigorosamente scientifico, non confessionale, vale a dire neutrale. È su questo metodo pretenziosamente scientifico, che si radica la stessa osservazione, praticata dalla più rigida teologia della liberazione, le cui intenzioni di incarnare la parola nella storia per una liberazione di tutto l’essere umano erano, tuttavia, genuine e rette. Anche il suo metodo induttivo, diversamente da tanta teologia accademica, deduttiva e astratta, si dimostrava corretto. Lo stesso cardinale Ratzinger, d’altra parte, aveva osservato che una teologia che non si radichi nella storia non serve.

Nel documento di Aparecida, di cui è invece protagonista il cardinale Bergoglio, si aggiunge un opportuno correttivo alla teoria dell’osservazione neutrale delle scienze naturali. Non bastano le scienze da sole ad assicurare un’osservazione corretta della realtà, tanto più che la loro pretesa neutralità, non trova più conferme nemmeno in ambito scientifico, epistemologico. Occorre un «osservare insieme», un osservare sinodale, quello dell’intero popolo. Occorre soprattutto un osservare cristico, quello dei poveri che sono la carne di Cristo. Ecco perché, se negli organismi internazionali, non si terrà conto della voce dei più fragili, socialmente, culturalmente, economicamente, non si potranno ottenere dei provvedimenti in grado di aprire un cammino verso il futuro. Tali provvedimenti, inoltre, saranno iniqui, perché fautori di diseguaglianze. L’osservare cristico, sotteso alla stessa opzione per i poveri, permette allora di passare da un government, governo dei potenti, ad una governance, governo di tutti, veramente democratico, o demopraxico, dato che lo stesso cratos presuppone un potere, sebbene espresso dalla base.

La Laudato si’, prima, e il Sinodo dell’Amazzonia, poi, aggiungono all’oggetto di osservazione sociale quello ambientale. E anche in questo caso non bastono più le sole scienze, perché per contemplare la natura, per coglierne la segreta bellezza è necessario lo sguardo incantato, cui la scienza ha deciso di rinunciare, avendo optato per l’osservazione distaccata, quale segno distintivo del suo metodo. Ma questo non stupisce più, dato che ora sono numerosi gli scienziati, esperti di etnologia, antropologia e anche di biologia e perfino tecnici, che riconoscono la necessità di mettersi alla scuola delle popolazioni indigene, per aver modo di comprendere quei meccanismi della meraviglia cosmica, che mai sarebbero riproducibili, né, perciò, indagabili in laboratorio. Le popolazioni indigene, come ha riconosciuto lo stesso sinodo, possiedono il segreto della cura dell’ambiente, che noi, gente dell’Occidente, abbiamo dimenticato.

Se davvero vogliamo includere l’ambiente, con i suoi tratti di cambiamento epocale, tra i segni dei tempi, dobbiamo allora accettare la riforma del nostro sistema culturale: del metodo di osservazione scientifica e dello stesso criterio di scienza. Se acconsentiamo a una tale revisione, dovremmo lasciarci interpellare proprio dal pensiero indigeno, che si colloca agli antipodi rispetto alla nostra cultura occidentale, disincantata di fronte alla creazione, a causa di una assolutizzazione del pensiero scientifico, di una fiducia immotivata nei confronti di una scientificità e, soprattutto, di una tecnologia, ritenute pigramente fonti stesse di eticità. Chiediamoci, quante volte anche noi abbiamo optato per soluzioni tecniche, soprattutto in campo economico, architettonico, edilizio, informatico, comunicativo, invece di interrogarci se ciò era in linea con le basi etiche, fondanti il nostro credo, la nostra vocazione personale o religiosa, il gruppo sociale o religioso cui apparteniamo. Quante volte abbiamo demandato a tecnici bancari, edili, meccanici, informatici, scelte che, sebbene minute, prese nel loro insieme finiscono per sovvertire la nostra identità. E se è così, dobbiamo chiederci allora quale consistenza storica, concreta dimostra il nostro credo, i nostri valori etici. Se sono soltanto delle idee, che legittimano una nostra posizione sociale, religiosa, economica, giuridica, ma che sono totalmente avulsi dalle dinamiche della realtà. Quanto, insomma, il nostro credo incide sulla nostra vita, oppure quanto la nostra vita è orientata da un significato alto, da una diaconia sociale e politica, volta al bene comune.

Lo stesso dissesto naturale, affiorato ora in modo traumatico con la pandemia, ma già più volte annunciato da disastri ecologici, fino agli ultimi incendi della foresta amazzonica, non ci richiede solo una mera parsimonia, una ascesi individuale o anche comunitaria, una rinuncia ad alcuni comfort. Una nuova sobrietà richiede, invece, di rimettere i nostri averi, tutti, sul mercato del bene comune. Il bene comune, infatti, costituisce la vocazione originaria dei beni, molto prima che la proprietà delegasse alla sola elemosina il compito di destinare alcuni averi per le necessità delle fasce più povere, meglio, per anestetizzare la rabbia delle vittime del sistema produttivo.

Si impone allora un doveroso passaggio: dall’assistenza alla giustizia, dal soccorso sociale alla politica del bene comune. Ed è ancora una volta la storia a farci comprendere come, con l’avvento degli stati moderni, sanzionanti il diritto alla guerra per la difesa dei confini nazionali, la giustizia per la salvaguardia della dignità di ogni singolo essere umano è stata ridotta a una giustizia per la tutela della proprietà privata.

Una chiara indicazione, sempre riguardo al bene comune, proviene proprio dalla pandemia, se la leggiamo non solo come mera fattualità medico-sanitaria, statistica, ma nella sua valenza storico culturale: essa non tollera una cura d’élite. Essa richiede che tutti, proprio tutti, siano presi in considerazione, perché la malattia di uno solo diventa presto la malattia dell’intero corpo sociale. Questa pandemia postula l’attenzione a ogni singolo, perché siamo tutti connessi: ciò che tocca uno solo interessa tutti. Un sistema sanitario basato sull’eccellenza e sulla centralizzazione è perciò assurdo, insensato. Ma soprattutto è illogica una globalizzazione, non solo economica, bensì culturale che non valorizzi ogni singola tradizione locale. Torna allora, ancora una volta la visione culturale, prima che religiosa, geopolitica, prima che confessionale, espressa dal Sinodo dell’Amazzonia.

L’universale senza il particolare, il centrale senza il periferico, sono piatta uniformità e cieca autoreferenzialità. Solo la biodiversità sociale, analogamente a quella naturale, garantisce equilibrio e armonia, tali da assicurare continuità istituzionale e creatività culturale.

La ripartenza dal territorio si dimostra imprescindibile anche per le stesse attività imprenditoriali. E anche su questo punto la storia ha qualcosa da dire, in quanto disciplina che si occupa dello spazio, oltre che del tempo, e si interessa soprattutto della soggettività personale, cui ora osa correlare il soggetto naturale, sempre più influente sulle scelte umane.

di Giuseppe Buffon