· Città del Vaticano ·

Incontro con Alfonso Longobardi scrittore e frate a tempo di rap

C’è bisogno di nuovi strumenti per dire parole antiche

Opera dell’artista campano Domenico Paladino dedicata alla crocifissione
13 luglio 2020

Uno sguardo che ti scruta, che sembra comprenderti subito, che sorride sempre alla vita con tutti i problemi che questa reca con sé. La personalità di frate Alfonso Longobardi, per tutti fra’ Alfonso Tartufone, è proprio in quello sguardo: due pupille grandi che assorbono tutto ciò che lo circonda, tramutandolo — sull’altare — in preghiera, mentre, nella vita di ogni giorno, diviene una canzone rap o un racconto, dove Vangelo e vita si fondono e si confondono. Il rap è, per fra Alfonso, movimento e vita: un modo di raccontare che arriva subito alla gente, condivisione “evangelica”. Mentre la scrittura è quella stanza segreta — il “cantuccio” di Saba — dove poter imprimere su carta le sue riflessioni sul Vangelo, confrontandolo con la società di oggi.

Fra Alfonso viene dalla terra resa famosa per la costruzione dei cantieri navali dei Borbone, Castellammare di Stabia: territorio di confine tra la zona vesuviana e la penisola sorrentina. Parlando con lui, l’eco delle origini si sente, ed è forte: l’accento è inconfondibile e addolcisce il dialogo perché, si sa, l’idioma partenopeo è quel “linguaggio” in cui lo spagnolo e il francese coabitano in armonia e catturano l’ascoltatore. Forse è questo uno dei segreti del successo delle sue catechesi che spopolano sul web. Ma c’è anche un altro ingrediente che rende fra Alfonso una personalità conosciuta nella “Chiesa social”: il suo essere essenziale, il dire «le cose così come sono», senza inutili orpelli. Oserei dire “minimal”: l’aggettivo sembra più che appropriato, visto che stiamo parlando di un religioso dell’Ordine dei Minimi di san Francesco di Paola.

Il percorso spirituale di fra’ Alfonso inizia nel gennaio 2004: per lui è un cambiamento di vita repentino. In napoletano risulterebbe, all’incirca, così: da ‘o juorno ‘a notte, “dal giorno alla notte”. Anzi, in questo caso: dalla notte al giorno, visto che Alfonso ha scelto il sole della Risurrezione. Dopo aver conseguito, nel 2006, il baccellierato in filosofia e teologia a Roma, viene mandato in Camerun presso la comunità dei frati minimi di Yaoundé. Rimane lì ben due anni, a contatto con una terra che lo segnerà profondamente: essere così vicino alla povertà diviene una scuola di vita, una scuola alla stregua del Vangelo. Ritorna poi in Italia profondamente cambiato e dal 2014 vive nella comunità romana di Sant’Andrea delle Fratte, la chiesa santuario resa famosa dall’apparizione della Vergine Maria (1842) all’ebreo Ratisbonne, poi convertitosi al cristianesimo. Ed è proprio da questa speciale “conversione” che iniziamo il nostro dialogo.

Alfonso Longobardi, Alfonso Ratisbonne: nel suo nome, già presente l’Ordine dei Minimi?

Beh, il nome che va per la maggiore nell’Ordine dei Minimi in realtà è Francesco (di Paola). Diciamo che qui a Sant’Andrea delle Fratte mi sono imbattuto nella storia della conversione di Alfonso Ratisbonne avvenuta in seguito all’apparizione della Vergine Maria, venerata qui sotto il titolo della Madonna del Miracolo. Scherzando dico sempre che entrambi ci chiamiamo Alfonso: lui però si è convertito, io invece ancora no, nonostante sia frate e sacerdote da un bel po’ di tempo.

Come nasce la sua vocazione? Qual è stata la scintilla?

Più che scintilla la definirei una forte scossa. Avevo vent’anni, ero felicemente fidanzato, avevo un lavoro e tanti progetti belli, e devo dire anche radicati nel Vangelo. Da un giorno all’altro però mi sono crollate tutte le certezze. In quel periodo ricordo che mi ritrovavo spesso dinanzi a un crocifisso. E lì, nel silenzio, risuonava spesso in me un passo di Isaia che dice: «Non temere, perché io sono con te» (41, 10). Mi sono fidato di quel Cristo crocifisso e disarmato che non mi ha mai più abbandonato. Da quel momento, si sono chiuse porte e si sono aperti portoni che non avrei mai immaginato di varcare. Da quel momento, la figura di san Francesco di Paola è diventata così presente nella mia vita che posso quasi affermare, ironicamente: san Francesco di Paola, con me, si è presentato come uno stalker. Me lo ritrovavo ovunque e in ogni situazione importante, io che per vent’anni non sapevo nemmeno della sua esistenza. Mi ha colpito la sua persona, la sua spiritualità penitenziale, quel messaggio di continua conversione che per me resta sempre valido. Ho conosciuto l’Ordine dei Minimi e da lì ho proseguito il cammino.

In fondo, padre Longobardi, già sapeva che sarebbe stato un frate certamente non del tutto “ortodosso”. Difficilmente avrebbe dimenticato i suoi interessi per il rap, per la scrittura, per la musica in generale, sbaglio?

Qualcuno scherzando dice che sono poco ortodosso ma in realtà sono un cattolico praticante. Il rap, il modo di scrivere, il linguaggio che utilizzo per evangelizzare, fanno parte del mio bagaglio personale. Vengo dalla strada, dalle palazzine popolari, un mondo bello e variegato. Sono cresciuto ascoltando musica rap, quando — in fondo — questo genere di musica, in Italia, era da poco nato e non era una tendenza come lo è adesso. Tra quei vicoli, quelle palazzine di Castellammare di Stabia, avevo avvertito in questo nuovo genere musicale un senso di appartenenza: il ritmo, le parole scandite dal tempo, le immagini, i colori. Tutto mi faceva ricordare il sentire gioioso di Napoli: dal rumore dei piattini delle tazze di caffè nei bar a quello delle “caccavelle” (i recipienti per cuocere) delle cucine delle mamme, delle nonne. Devo precisare però che non sono un rapper né mi reputo uno scrittore; ogni tanto mi cimento in queste cose ma se lo faccio è perché fanno parte di me e mi ci trovo bene, a mio agio. Sono, prima di tutto, un religioso dell’Ordine dei Minimi.

Appunto, un religioso: così, nel suo cammino nasce la composizione di alcuni brani rap sulla storia del fondatore dell’ordine, san Francesco di Paola. Com’è nata l’idea di mettere in versi rap la storia del santo calabrese?

Tutto nasce dalla voglia di comunicare. Nella mia esperienza ho incontrato la pastorale giovanile. Da questo incontro così felice sono nate le “catechesi rap”. C’è bisogno di nuovi strumenti per dire parole antiche. È importante coinvolgere i giovani con il loro linguaggio. Per questo motivo, partendo proprio dalla musica, abbiamo cercato di far conoscere ai giovani san Francesco di Paola, la sua vita, il suo amore per Cristo.

Ma non c’è solo la figura del santo calabrese nella sua musica. Abbiamo anche non pochi brani sui passi del Vangelo, come ad esempio «Io voglio seguire te» o «Svegliati Lazzaro». Tra l’altro brani che riscontrano un numero considerevole di visualizzazioni su YouTube.

Avendo riscontrato ottimo successo per la storia di san Francesco di Paola, abbiamo poi esteso “la formula” ad alcuni episodi del Vangelo. In fondo, ritengo che ogni linguaggio può essere un valido strumento per evangelizzare. Quello del rap è diretto e il più delle volte è nudo e crudo, ma anche ironico, duro, poetico o introspettivo. L’annuncio passa dal raccontare e quest’arte si sposa molto bene con il rap che è capace di mettere in versi esperienze personali che sono emotivamente toccanti perché sono vere. Quando la fede, l’incontro con Cristo è esperienza di vita, allora anche il rap può dire la sua e incidere perché poi è la musica a veicolare e ad agevolare il tutto.

E, in questo suo percorso, fanno poi capolino due libri, editi da San Paolo: il primo — che ha avuto un ottimo successo — dal titolo «Gesù mangiava a scrocco», del 2018, e «Quel brigante di Gesù», uscito il 20 giugno. Certamente titoli un po’ provocatori; non passano, diciamo, inosservati. Perché questi titoli?

I titoli sono provocatori per chi non va oltre. In realtà entrambi richiamano i vangeli. Il primo allude alla critica che vede Gesù mangione e beone e da lì ne approfitto per parlare del regno di Dio che è un grande banchetto, sviluppando così un discorso sponsale ed eucaristico. Il secondo, invece, fa riferimento all’arresto nel Getsemani e soprattutto alla morte in croce che all’epoca era la fine che facevano i malfattori. In questo nuovo libro mi soffermo sull’incontro con Gesù. È morto in questo modo perché non l’hanno incontrato e dunque non lo hanno conosciuto. Chi invece lo ha incontrato è stato in grado di scoprire una sfumatura bella, vera e preziosa del volto di Cristo che è capace di entrare nelle storie personali portando vita nuova. Ed è un discorso questo che si sviluppa tenendo conto di tutto il cammino che porterà Gesù all’esperienza della croce. La novità forse non sta in ciò che racconto ma nel come. Utilizzo un linguaggio parlato, diretto e ironico proprio come avviene nel rap.

«Puoi prendere anche le batoste dalla vita, subire pure tutte le ingiustizie di questo mondo ed entrare in crisi, chiuderti in te stesso, isolarti, stare nella rabbia e con la morte addosso, ma a un certo punto l’amore eterno di Cristo morto e risorto, che in te è presenza viva, ti farà sentire la nostalgia di un’autenticità non vissuta che ti chiede la carità di manifestarsi perché ti vuole far star bene. Possiamo essere certi che questa nostalgia, a un certo punto, sarà come una voce, si farà sentire così forte che non potremo non ascoltarla». Così scrive nel suo ultimo libro. 

È l’esperienza dei credenti in Cristo. Lo spirito del Risorto abita in noi e certo non rimane in silenzio a guardare. È il Paraclito che ci parla delicatamente, con amore. Ed è proprio questo amore presente e tenero che ci fa avere nostalgia della pienezza. Ritengo che quell’esperienza che noi chiamiamo “vuoto esistenziale”, in realtà sia un desiderio di pienezza che solo l’amore di Dio può abitare. Con il tempo ne prendiamo coscienza e tutto questo è il frutto dell’azione costante dello Spirito Santo che ci conduce pian piano in un cammino di continua conversione. La stessa conversione che ci fa morire a noi stessi e ci rende ancor più consapevoli di partecipare della vita divina.

I proventi della vendita dei suoi libri saranno devoluti alle missioni dell’Ordine dei Minimi in Africa. Possiamo dire che nel suo cuore è sempre presente, viva, questa terra: l’Africa, paese lontano ma vicino. Tanto vicino da farle ricordare addirittura la sua Napoli. Infatti, esplorando un po’ YouTube, ci imbattiamo — addirittura — in una versione assai originale del brano «Napoli» dei 99 Posse. Una cover speciale in cui il sud d’Italia si incontra con il sud del mondo. 

Vivere in Camerun è stata una bellissima esperienza. Mi sono sentito a casa anche perché lì si utilizza l’arte dell’arrangiarsi. Molto, molto vicino alla secolare arte partenopea, diciamo così. Il fatto di essere cresciuto per strada mi ha aiutato molto a relazionarmi con gli abitanti di quella terra, senza troppi problemi. Mi ha aiutato ad apprezzare una cultura differente dalla nostra. La cover dei 99 Posse fu un esperimento assai particolare: composta con i ragazzi del luogo, abbiamo voluto riadattare la canzone del gruppo musicale napoletano alle problematiche della città. La musica è sempre un ponte. Quella volta lo è stato tra Napoli e Yaoundé. In fondo, non sono così lontane come possono sembrare.

di Antonio Tarallo