· Città del Vaticano ·

Nei secoli il termine ha assunto nuovi sensi e differenti maschere

Arcipelago povertà

Anonimo, «Lucia e Renzo» (XX secolo). Con «I Promessi Sposi» due poveri hanno la prima apparizione in un testo di rilievo della lingua italiana
21 luglio 2020

Pubblichiamo stralci dalla prefazione della curatrice a «Povertà. Atti del sesto Colloquio internazionale di Letteratura italiana» dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, che si è svolto a Napoli, dal 27 al 29 maggio 2015 (Roma, Salerno Editrice 2020, pagine 456, euro 38 ).

Dalla lettura del volume, nella varietà dei contesti storici e delle prospettive in cui è studiato il significato di “povertà”, si delineano alcuni motivi che conducono alle due accezioni dominanti del termine come ci vengono trasmesse dal Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia.

La prima voce recita: «Mancanza più o meno completa o accentuata insufficienza dei mezzi necessari per vivere; la condizione di chi ha a disposizione insufficienti mezzi di sussistenza» e, in senso concreto, «insieme delle persone che vivono in grave indigenza»; segue poi la definizione: «Nella morale cattolica, distacco dai beni terreni che porta a ottenere un alto grado di perfezione spirituale». Se la povertà in quanto virtù oppure piaga sociale è al centro degli interventi introduttivi dello storico delle idee e filologo Corrado Bologna e del costituzionalista Marco Ruotolo, appare subito come dal confronto con i testi delle specifiche letterature la parola acquisti nel tempo nuovi sensi e differenti maschere.

Nel primo saggio colpisce il forte nesso tra la letteratura e la povertà, non solo perché quest’ultima è argomento e manifesto ideologico in testi fondativi quali i Vangeli e il Cantico delle creature o in opere che si richiamano a questa tradizione come il Sacrum commercium saldi Prancisci cumdomina Paupertate, trattatello allegorico a cui sembra alludere Dante nell’xi canto del Paradiso, al quale è dedicato il contributo di Vincenza Tambura. Anche perché le teorie estetiche del secolo scorso (Rilke, Weil, Suzuki, Hisamatsu, Agamben) considerano la disposizione alla povertà un atteggiamento essenziale del fare poetico. La poesia trova la propria unicità nel togliere e ridurre, lo stesso verso è testimonianza di un limite posto alla scrittura. Attraverso una disamina tra diverse espressioni d’arte e di pensiero affiora come l’esiguità della forma in una poesia, o in un quadro, o in un brano musicale si origini da una preparazione della mente, sia ricerca e punto di conquista, fonte di nuova ricchezza.

Ma c’è qualcosa di altro: il poeta o l’artista devono rendere povero il proprio spirito per permettere che vi penetri la grazia, la forza ispiratrice, così come la stessa opera d’arte dovrà concedere al suo fruitore di completarla afferrandone l’inespresso. Un ragionamento sul nesso tra povertà e poesia era stato anticipato da quel grande “filosofo poetante” che è Leopardi, il quale nello Zibaldone di pensieri, nel rileggere una tematica centrale della Scienza nuova di Vico, vede la “povertà” come il risultato di un progresso lineare che ha portato l’uomo moderno a uno stato simboleggiato dal deserto. L’evoluzione delle scienze e del sapere in generale hanno allontanano l’uomo dal contatto con la natura, lo hanno privato dei sogni e delle speranze, rendendo poveri la creatività e il sentimento. Fabiana Cacciapuoti indaga l’intero percorso delle occorrenze del lemma povertà nel diario leopardiano e mentre sottolinea l’impegno del recanatese nello studio etimologico dei vocaboli, dimostra che il senso dato a questa parola dal poeta conferma il suo ruolo di precursore delle filosofie dell'essere sorte tra fine Ottocento e i primi trent’anni del Novecento.

Filosofie che trovano in Giovanni Pascoli un singolare rappresentante, come argomenta Alberto Folin nel suo contributo sul poeta romagnolo, partendo dai verso di Holderlin «perché i poeti nel tempo della povertà?» (dall’elegia Pane e vino), commentato da Heidegger nel saggio Perché i poeti?, dove «il tempo della povertà» è definito come «tempo della notte del inondo», povero in quanto «non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale».

Nei versi di Pascoli assistiamo al passaggio dalla povertà in quanto luogo di una narrazione biografica alla povertà quale dimensione esistenziale in senso leopardiano e heideggeriano, capace di esprimersi nella creazione di un originale linguaggio poetico. Il Novecento continuerà a fare i conti con il depauperarsi dell’io lirico, come ci dice Daniele Piccini nelle sue pagine, indicandoci la stretta dialettica tra riflessioni sulla povertà e ricerca sul linguaggio. Una ricognizione che attraversa lo spleen e l’ennui dei crepuscolari, per giungere alla nuova poesia di Montale, Saba, Penna, Betocchi e Pasolini; per poi approfondire due esperienze di povertà vissuta e testimoniata in versi che inquietano ed elevano, quelle di Aldo Capitini e di David Maria Turoldo.

La meditazione sul sentimento di povertà crea uno spazio di confronto tra poeti atei e religiosi, ognuno dei quali lo ha arricchito di esperienze personali fino a farlo diventare uno dei luoghi piú affascinanti del pensiero del secolo scorso. Speculare alla povertà in quanto rinuncia determinata, recupero dell’innocenza, condizione di prossimità o cosciente lontananza dall’assoluto, nel libro non si tace la rappresentazione della povertà nel senso di insufficienza dei mezzi necessari per vivere.

Marco Ruotolo, nel saggio Povertà e diritto, ci porta nella nostra quotidianità: chi sono, oggi, i poveri, come sono cambiati rispetto al passato, quali i diversi livelli di povertà e gli strumenti per misurarla, quali i doveri del diritto — con lo sguardo attento alla nostra Costituzione — e della Repubblica italiana per rimuovere le disuguaglianze e la povertà, condizione che impedisce la libertà. Il discorso, intrecciandosi con il preoccupante peso che assumono le attuali esigenze di bilancio nazionali ed europee, esprime la posizione ferma e propositiva dell’autore con precisi riferimenti al pensiero giuridico, economico e sociale degli ultimi due secoli.

La duplice faccia della povertà era già impressa nelle Beatitudini. Se Matteo scrive: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli», Luca, piú attento alla dimensione sociale, afferma: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio».

In una ricognizione storica e critico-filologica Gaetano Di Palma spiega le parole dei due evangelisti alla luce della tradizione vetero e neotestamentaria per giungere a una proposta interpretativa. Tommaso Campanella all’inizio del XVII secolo, nei suoi avanguardistici scritti di estetica, considerava la Bibbia il libro dei libri.

Sebbene al problema della povertà sia dato rilievo nell’Antico Testamento e sia la condizione prevalente della società in cui vive Gesù, sfondo di non poche narrazioni evangeliche, la letteratura italiana è stata parca nei confronti dei personaggi poveri e della questione “povertà”, privilegiando scenari bucolici o elegiaci, cavallereschi e cortesi. A scuola si impara che con i Promessi sposi due poveri fanno la loro prima apparizione da protagonisti in un testo di rilievo in lingua italiana. Nelle pagine che seguono vediamo che non bisogna attendere il XIX secolo.

Con il romanzo Lazarillo de Tortues, a metà Cinquecento, si diffonde in una Spagna segnata da una profonda crisi economica un’opera rimasta anonima che racconta in prima persona la storia di un emarginato costretto a vivere ogni giorno con l’angoscia di morire di fame. Il libro inizia a circolare in tutta Europa e sorgono negli anni immediatamente successivi una letteratura e una pittura che raffiguravano la sofferenza assillante della fame: non dovuta a casi straordinari della vita, a rovesci della fortuna, come poteva capitare nelle novelle del Decameron, ma sofferta quale fatale normalità; celebri sono rimaste anche nei dipinti di quei decenni le rappresentazioni dei poveri, ovvero dei “pitocchi” (dal greco ptokós, “mendico”). È l’inizio di una tematica destinata a proseguire fino a oggi, che nell’Ottocento incrocia la grande musica con il melodramma di Giuseppe Verdi. Proprio nelle relazioni di Battistini sul romanzo picaresco dei secoli XVI e XVII, e in particolare su Giulio Cesare Croce, e in quella di Rostagno dedicata a Verdi si ha modo di vedere la messa in scena di personaggi poveri e il significato della povertà nelle vicende personali degli autori.

di Silvia Zoppi Garampi