· Città del Vaticano ·

A vent’anni dalla morte del «mattatore» italiano, attore e scrittore

Un poeta beat chiamato Vittorio Gassman

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27 giugno 2020

Vent’anni fa se ne andava Vittorio Gassman. Un mito del cinema, del teatro, ma anche scrittore e poeta: il suo Vocalizzi, edito da Longanesi nel 1988, ha rivelato una sua dimensione profonda, nonostante lui amasse dire — non senza un pizzico della sua immancabile gigioneria — che si trattava di un hobby, anzi, di un “vizio veniale”. In Vocalizzi emerge non solo la dimensione di creatore in proprio di versi, ma anche di traduttore di liriche altrui, da Marziale a Rimbaud, fino a Borges, passando per Michaux e Valery, solo per fare pochi nomi.

A distanza di più di trent’anni il verdetto del tempo non appare inclemente, soprattutto perché Gassman non cede alle sirene dell’autoreferenzialità, del famoso (non attributo, ma sostantivo come la moda d’oggi imporrebbe, il che è tutto dire) che esibisce le sue pene d’amor perdute, per rimanere in contesto teatrale, ma viaggia oltre.

Il viaggio è infatti uno dei punti focali della sua poetica e delle sue scelte come traduttore. Quindi niente pianti su passioni tramontate o sui gradi di febbre di mal d’amore, ma riflessioni disincantate sui desideri di terre — anche in senso metaforico — lontane e su quanto sia vera la disdetta del Rimbaud del Battello ebbro sulla fine dei sogni con la constatazione, da parte di Gassman, della fine dell’antico cercatore di verità divenuto anch’egli un «battello / frustrato dalla deriva» (Deriva).

Il viaggio è innanzitutto dentro di noi, e questo l’attore-poeta lo sa bene, visto che lo associa alla navigazione a vista nei salotti dell’Italia che conta, tra uno sbadiglio e l’attesa del momento del segnale del rompete le righe da parte del padrone di casa di turno: «Oggi, bevendo nelle sale sfarzose / sofisticati vini d’annata / cupi si assimilano alle tediose / gastriti stanche della gente bennata, / al chiacchiericcio che si fa cirrosi».

Ma la poesia porta sempre più altrove, fuori dai salotti dei fortunati, verso quelle domande di cui si sconta in partenza la non risposta, perché sarebbe quella dell’Origine maiuscola, la richiesta del senso finale di ogni cosa. Gassman rispose una volta alla domanda se credesse o meno dicendo che preferiva cercare Dio «nelle zone profane», e, messo alle strette dal cronista, aggiungeva che l’idea di Dio, secondo lui, era «in ascesa nella borsa delle esigenze dell’umanità». Il che la dice lunga sull’onestà intellettuale ma anche sulla realistica capacità di interpretare i segni dei tempi (eravamo negli anni Ottanta) anche quando osò affermare che Bob Dylan era un poeta autentico, di contro a quanti, ed erano molti, opponevano che comunque erano sempre canzonette: il Nobel per la letteratura 2016 all’autore di Blowing in the wind gli ha dato ragione.

Ma, per tornare al Gassman poeta, oltre al viaggio come ricerca interiore vi è un altro elemento assai significativo in questi versi, quello del tempo: inteso non solo e non tanto come triste riflessione sullo scorrere delle ore, ma come visita dell’angelo, che permette, nell’epifania dell’attimo, il rientro nello sguardo di ieri, come accade in Bimbo d’autunno, contemplazione dell’altro sé d’un tempo, impossibile se non nella riappropriazione di quel «mio Ariele del meriggio» che è un singolare richiamo shakespeariano immerso nella malinconia e nel riconoscimento della molteplicità dell’essere. Rimane qui una singolare leggerezza, una capacità di dare forma al gioco e alla frenesia d’un tempo anche dentro un altro tempo.

Le poesie di Vocalizzi sono state scritte in periodi diversi, e in occasioni diverse, un po’ per reagire ad una malattia che aveva colpito l’autore, un po’ come “terapia” per i momenti di depressione, e un po’ per reazione ad un ambiente che tende a irrigidire in un personaggio fisso, una volta per tutte, l’uomo in perpetuo cambiamento che vive in noi e che non sopporta le maschere sociali, fossero anche quelle di mattatore o istrione talvolta cinico. Per cui in All’ambiente il poeta decide di togliere quella pesante maschera che impedisce di essere se stessi, di confessare che dietro la sfrontatezza c’è l’apparente «equivoco / di avere amato l’Alfieri e il Manzoni»: esplode l’antica rabbia di aver dovuto sopportare i cartellini che il mestiere di attore appendeva al proprio collo e le sprezzanti, ciniche categorie appiccicate una volta per tutte ad ognuno, per cui ad un caffè storico come quello di Rosati si derideva chiunque con quell’invisibile cartellino al bavero, quando «passava il fascista, lo stoccatore, lo sciocco».

La propria, confessata tendenza ai rapidi cambiamenti d’umore emerge anche nelle scelte del Gassman traduttore, che variano dalla corrosività di un Boris Vian alla dolcezza sconsolata della celebre Posso scrivere i versi… di Pablo Neruda.

Il traduttore tra l’altro conosceva molto bene alcuni dei poeti tradotti, soprattutto Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti, i protagonisti di quella Beat Generation che apparentemente sembra così lontana dalla spensieratezza di alcune maschere interpretate da Gassman e che rivelano la complessità e la ricchezza dell’uomo. Il quale, traducendo Ferlinghetti, condivideva il tentativo di tornare alla purezza originaria della Natività, «per non sentire carole natalizie / alla Bing Crosby in qualche zuccherato / special, happening, Carosello», e per evitare la commercializzazione di un evento che ha dato una speranza diversa al mondo.

Un Gassman diverso da quello mediatico, e nello stesso tempo onestamente, a volte sconsolatamente, a cuore aperto, che rivela la parte più profonda di sé.

di Marco Testi