· Città del Vaticano ·

Effetti musicali

Sopraffatti dalle note

Nicolas Poussin, «Paesaggio con Orfeo ed Euridice» (1650-1651)
02 giugno 2020

Il suono, in ogni sua forma, fa parte delle nostre vite. Suono non vuol dire solo musica. È un termine più ampio che indica le tante onde invisibili che solcano l’aria e arrivano al nostro orecchio. Rumori di ogni genere: stridii, scricchiolii, sussurri, grida, battiti, scalpiccii, mugolii, pianti, ecc. L’ampiezza dei termini coniati per definire un suono indica di quanti tipi, e di quale intensità, essi possano essere. Se ci soffermassimo un secondo su quante tipologie di suono sentiamo in una giornata, probabilmente non riusciremmo ad elencarle tutte.

E poi c’è la musica, da cui siamo circondati molto più di quanto crediamo. Le nostre vite sono immerse in una dimensione sonora. Ciò che entra in noi attraverso l’orecchio, ci cambia, ci trasforma, penetra nel profondo. Eppure, spesso, non ci facciamo troppo caso. Il nostro approccio con il mondo sembra essere soprattutto “visivo”, fatto di immagini e colori. Gli occhi sono ben evidenti sul nostro volto. Di tinte diverse, sono lo specchio dell’anima, sono la bellezza di un uomo e di una donna.

Le orecchie sono più discrete. Se ne stanno ai lati del capo, spesso nascoste sotto i capelli, non sono certo la prima cosa su cui posiamo lo sguardo quando notiamo una persona. Eppure, le orecchie e la loro capacità di captare il mondo esterno sono qualcosa di speciale, forse unico. Hanno un che di meraviglioso. Sono loro la porta di accesso a quel mondo fatto di vibrazioni che entrano dentro di noi e si trasformano in messaggi, in sensazioni e svariate emozioni.

Questo universo, che trova il suo apice nella musica, la capacità dell’uomo di ordinare i suoni, ha affascinato da sempre ogni popolo. Come se dietro un atto apparentemente banale, come quello dell’ascoltare, si nascondesse qualcosa di molto più profondo. Essenziale. Come se dietro la capacità di governare, in qualche modo, le sequenze dei suoni, si nascondesse un potere enorme, quasi invincibile.

Apre orizzonti nuovi a questo viaggio la storia di Orfeo. Storia meravigliosa che ha ispirato poeti e musicisti di ogni tempo. Paradigma della potenza del canto e della musica. Orfeo, figlio della musa Calliope, dea dalla bella voce, e di Eagro, il cacciatore solitario, riceve in dono da Apollo una lira. Apollo stesso lo addestra alla musica e lui inizia a vagare suonando e cantando. E l’effetto della sua arte su chi l’ascolta ha qualcosa di stupefacente. Usando le parole di Seneca, «Alla musica dolce di Orfeo cessava il fragore del rapido torrente e l’acqua fugace, obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto... Le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commuovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva... Le Driadi, uscendo dalle loro querce, si affrettavano verso il cantore, e perfino le belve accorrevano dalle loro tane al melodioso canto». Quando Orfeo suona, tutto si placa, si quietano i timori, svaniscono le paure, improvvisa arriva la quiete. Il potere della sua musica è enorme: chi la ascolta ne rimane incantato, senza poter opporre resistenza: quella armonia trasforma nel profondo la sua anima.

Tutti, almeno una volta, abbiamo sentito dentro di noi questo potere riconciliante della musica.

Qualche anno fa, mi è capitato di entrare nella basilica di Sainte Marie-Madeleine di Vézelay, in Borgogna. Capolavoro dell’architettura romanica, poi nel XII secolo trasformata in gotica, si presenta allo sguardo con la sua facciata maestosa, la stessa, anche se rimaneggiata nei secoli successivi, in cui si imbattevano i pellegrini medievali che salivano la colline eternelle per arrivarvi. Quando sono entrato, le alte navate della cattedrale si sono aperte a me in un silenzio pieno e denso, amplificato dal fatto che i miei occhi ci hanno messo un po’ ad abituarsi all’oscurità improvvisa e alla luce soffusa che filtrava obliqua dalle alte finestre. Ciò che però ha profondamente cambiato il mio stato d’animo è stato l’udire i canti dei monaci benedettini che provenivano dal coro in fondo alle navate. Cantavano l’ufficio delle ore, con melodie gregoriane leggere e perfette. Era come se qualcosa entrasse dentro di me e spegnesse, a poco a poco, le inquietudini. Come se il battito, il ritmo della vita, rallentasse improvvisamente, aprendo ad un’esperienza lontana, molto lontana, dal quotidiano.

Un’esperienza simile vivevano coloro che ascoltavano la musica di Orfeo. Il loro cuore si placava e non potevano opporsi a questo acquietarsi del cuore.

Una delle caratteristiche principali della musica, che ne descrive tutta la potenza, è proprio quella dell’impossibilità di opporsi alla sua bellezza. Si viene come sopraffatti, presi da una sorta di incantesimo, parola che, guarda caso, custodisce al proprio interno quel “cantare” di cui Orfeo era maestro.

Il grande poeta boemo di lingua tedesca, Rainer Maria Rilke, nei Sonetti a Orfeo, descrive nel modo migliore quest’essere sopraffatti dalle note: «Lì si levò un albero. Oh puro sovrastare! / Orfeo canta! Grandezza dell’albero in ascolto! / E tutto tacque. Ma proprio in quel tacere / avvenne un nuovo inizio, cenno e mutamento. / (…) tu creasti per loro un tempio nell’udito».

Tutto tacque. Condizione necessaria di ogni ascolto, ma anche effetto della bellezza di una musica che seduce. Due tipi diversi di silenzio. Il primo rappresenta l’attesa, il silenzio prima dell’inizio del concerto, un atto di fiducia che diamo al nostro interlocutore, a chi ci sta di fronte e sta per iniziare a suonare. Il secondo è forse ancora più profondo e denso. È il silenzio che si diffonde quando la musica è iniziata, e che si fa via via più pieno a mano a mano che la musica penetra in noi. Non è un silenzio assoluto, è piuttosto l’atteggiamento silenzioso di chi, rapito dall’armonia sonora che lo circonda, lascia che questa penetri in sé, dimenticando tutto ciò che lo circonda.

Tutto tacque. Anche ora tutto tace, in questo tempo strano di relazioni a distanza. Un tempo di silenzio forzato che può diventare fecondo, se diventa silenzio pieno di attesa o silenzio complice della bellezza che si svela davanti a noi.

di Cristian Carrara