· Città del Vaticano ·

A colloquio con monsignor Pizzaballa

Lo spirito discende a Gerusalemme

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01 giugno 2020

Gerusalemme 30 maggio. Sono giornate frenetiche per l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, nella lenta, progressiva e prudente riapertura alla vita ordinaria in Israele, Palestina e Giordania. Ma volentieri l’arcivescovo trova uno spazio per raccontare ai lettori de «L’Osservatore Romano» questi difficili tre mesi.

«Debbo dire la verità: ci siamo trovati all’inizio impreparati. Questo paese è abituato a vivere e fronteggiare le emergenze. Ma questa proprio non ce l’aspettavamo. Noi abbiamo tenuto le nostre chiese aperte e la nostra attività pastorale in piedi anche durante i conflitti e le Intifada, ma una cosa del genere non potevamo neanche immaginarla. Io mi trovavo a Bari per il convegno ecclesiale “Mediterraneo, frontiera di pace”, quando hanno iniziato ad affacciarsi i primi segni della pandemia. Ho dovuto attendere qualche giorno prima di poter rientrare in Israele, perché nel frattempo il governo aveva bloccato tutti gli ingressi dei non residenti, e comunque, una volta tornato, il 29 febbraio, ho dovuto sottopormi ad una quarantena di due settimane dentro al Patriarcato. Ma anche da qui abbiamo subito avviato i contatti con tutte le nostre realtà in Israele, Palestina e Giordania, cercando di dare qualche orientamento. Le misure restrittive del governo israeliano si sono rivelate efficaci, alla fine ci sono stati circa 16.000 contagi e 280 morti: nulla di paragonabile alla tragedia di altri paesi europei. Anche la scelta, che era apparsa drastica, di chiudere immediatamente i passaggi con i Territori occupati si è rivelata lungimirante: meno di 450 palestinesi contagiati e tre soli morti. Se il virus si fosse propagato anche lì, considerando la debolezza delle strutture sanitarie palestinesi, si sarebbe aggiunta un’altra tragedia». «Anche la Giordania ha immediatamente chiuso le frontiere, e anche lì il danno è stato contenuto: 730 contagiati e 9 morti». «In Israele gran parte dei contagi sono avvenuti all’inizio tra gli Haridim, gli ebrei ortodossi riluttanti a dismettere la loro tradizionale vicinanza fisica nella preghiera in sinagoga o nello studio nelle Yeshivà. Poi è prevalso il buon senso».

«I nostri parroci sono stati molto bravi: pur rispettando le limitazioni sono riusciti a mantenere un minimo di relazione comunitaria. Questo è un punto importante perché la vita dei cristiani qui è fortemente intrecciata con la loro identità minoritaria, e quindi — diversamente da quanto accade in Italia e in Occidente — la dimensione comunitaria è fortemente radicata. Un cristiano è tale non semplicemente perché ne professa la fede, ma in quanto vive nel compartimento della sua comunità. Ciò ha avuto implicazioni anche sul piano della preghiera, che è in genere prevalentemente comunitaria. Questo ha significato all’inizio una minore dimestichezza con la pratica dei riti on line e soprattutto la mancanza di abitudine a pregare in famiglia. Per questo una delle prime cose che abbiamo fatto è stato predisporre dei sussidi in arabo che istruissero a pregare in casa, che abbiamo distribuito ovunque in Israele e in Palestina. Le celebrazioni on line hanno avuto comunque un’audience molto alta durante la settimana santa e il tempo pasquale». In effetti alcuni dei riti trasmessi sono risultati comunque molto suggestivi, come la domenica delle Palme dalla chiesa del Dominus Flevit a mezza costa del Monte degli Ulivi con lo stesso Pizzaballa insieme al padre Francesco Patton, custode di Terra Santa, o il surreale Rito del Sacro Fuoco nella basilica deserta del Santo Sepolcro per la Pasqua ortodossa. «I nostri parroci hanno sperimentato in questo tempo molte iniziative comuni con i fratelli delle chiese orientali. Soprattutto sul fronte della solidarietà e della carità. Perché va detto chiaramente, se le cose non sono andate malissimo dal punto di vista sanitario, la situazione socio economica, specie per la popolazione arabo-cristiana, è molto compromessa. Tante persone hanno perso il lavoro, e tutto il circuito, diretto o indotto, connesso ai pellegrinaggi e al turismo religioso si è bloccato. E non siamo ancora oggi in grado di sapere quando potrà riprendere: Israele, che pure sta riaprendo al suo interno, è ancora un paese isolato dal resto del mondo».

«Questa scure si è abbattuta su tutti indistintamente, e per una volta — diversamente dalle emergenze del passato — si è sedimentata la consapevolezza di essere tutti sulla stessa barca. È stato incoraggiante, da questo punto di vista, che durante la quarantena i rappresentanti delle tre religioni abramitiche si siano incontrati due volte a Gerusalemme per una preghiera comune».

«In queste settimane, pur rispettando tutte le limitazioni, ho voluto visitare il maggior numero di nostre comunità in tutto il paese. Incontri di grande intensità spirituale, a Nazareth, impossibilitati a fare processioni, ho camminato con la statua della Madonna lungo le strade dove abitano i cristiani». 
«Sicuramente quest’esperienza ci cambierà tutti nel profondo, anche se è ancora presto per capire come. Per il momento io colgo due tendenze. La prima è la maggiore coscienza della nostra fragilità. In due settimane sono crollate come un castello di carte tante certezze, sicurezze, progetti e aspirazioni. Abbiamo capito che la vita non è totalmente nelle nostre mani, e che i deliri di onnipotenza si sono rivelati per quel che sono. La seconda è il vivere con un sottofondo di paura. Esibita, o nascosta, repressa o malcelata, la paura ora fa capolino lungo le nostre esistenze. La tensione tra la speranza del vivere cristiano e la paura che comunque aleggia è ora la nostra vera sfida».

«Nel frattempo monsignor Pizzaballa, in Israele sono anche successe altre cose importanti in queste settimane…». «Sì, c’è finalmente, dopo lunghi mesi di trattative e tre tornate elettorali, un nuovo governo. È stato un parto molto difficile, le due forze maggiori rimangono comunque molto distanti, sembra più una tregua… vedremo. E poi il progetto di annessione di parte dei Territori della Cisgiordania, conseguente al Piano Trump. Non ne siamo stupiti, ma siamo molto preoccupati. Anche la Santa Sede si è espressa in tal senso. Il progetto di annessione rischia di essere un colpo irreversibile ad un dialogo, che peraltro ormai non andava più avanti già da tempo. Occorre immaginare e creare subito nuove forme di confronto su un futuro di pace e non di guerra».

«Noi il nostro contributo ad un futuro di pace lo diamo soprattutto attraverso l’educazione al dialogo che ispira le nostre scuole nei territori del Patriarcato. Ma proprio quest’attività oggi è in serio rischio di sopravvivenza a causa della pandemia. Questo di maggio e giugno è il periodo delle nuove iscrizioni a scuola, e a causa dell’enorme perdita di posti di lavoro in Palestina e Giordania, il rischio che buona parte dei 12.500 studenti che frequentano le nostre 38 scuole nei due paesi si vedano costretti a disertarle è molto forte, perché non possono pagare le pur minime rette. Anzi ci troviamo nella situazione di dover aiutare le stesse famiglie degli studenti a sopravvivere alla crisi economica. Dall’altro lato i nostri insegnanti hanno continuato a lavorare in queste settimane con grande dedizione con la modalità della didattica a distanza e devono essere giustamente retribuiti. Ad oggi il deficit complessivo delle nostre scuole ammonta a 7 milioni e 200.000 dollari, una cifra enorme, destinata a crescere, e che e per le nostre sole forze è insostenibile. Chi ha a cuore la pace deve aiutarci a sostenere queste scuole di pace. Ci appelliamo all’aiuto dei cristiani di tutte le chiese nel mondo e a tutti gli uomini di buona volontà che chiedono pace». La generosità può essere indirizzata al: Latin Patriarchate of Jerusalem P.O. box 14152, e i versamenti in euro possono essere effettuati presso la Pax Bank all’Iban: DE16370601930058029017 specificando nella causale “per le scuole del Patriarcato di Gerusalemme”. «E, prima di lasciarci, lei come ha vissuto questo tempo?» «Giornate intensissime con tanta preghiera e tante cose da fare, e soprattutto con tanta ammirazione per la dedizione straordinaria mostrata dai nostri preti. E poi anche tanta apprensione, per una volta… al contrario. Lei sa che io vengo da Bergamo. I miei familiari stanno bene, ma tanti amici sono stati colpiti. E adesso c’è ancora più da fare qui in Terra Santa: molti problemi iniziano adesso. Abbiamo proprio bisogno che questa domenica il Paraclito ridiscenda in mezzo a noi, e ci doni forza, coraggio e speranza».

di Roberto Cetera