· Città del Vaticano ·

DANTE E I PAPI – IV
Umanesimo cristiano e dibattito politico e sociale nella seconda metà dell’Ottocento

Leone XIII
e il dantismo contemporaneo

Papa Leone XIII
30 giugno 2020

Se dovessimo considerare manzonianamente la storia come manifestazione della Provvidenza divina, potremmo dire che il papato di Leone XIII spalanca le porte al dantismo papale contemporaneo, quello che porta i nomi dei Papi santi del secolo XX, ma senza abbandonare la prospettiva estetica, morale e teologica, seguita da Pio II nel Quattrocento e da Alessandro VII nel Seicento, quella dell’umanesimo cristiano.

Il dantismo di Leone XIII da una parte coincide con la fine del potere temporale dei Papi, dall’altra si “traduce” nella dottrina sociale della Chiesa, espressa a chiare lettere nella Rerum novarum. Citiamo subito la sua lettera indirizzata all’arcivescovo Sebastiano Galeati, quando si decise di erigere a Ravenna (1892) un mausoleo dedicato a Dante (lettera che accompagnava un notevolissimo contributo economico). «Degnissimi certamente di approvazione e di plauso stimiamo coloro che divisarono d’innalzare in Ravenna al nostro Dante un mausoleo col contributo di tutti i popoli (…) Per quello che in particolare ci riguarda, siamo specialmente mossi dal riflettere quanto splendido ornamento sia del Cristianesimo. Poiché quantunque spinto all’ira dalle amarezze dell’esilio e per ispirito di parte errasse talvolta nei suoi giudizi, non fu però mai ch’ei fosse di animo avverso alle verità della cristiana sapienza». La cultura laica dell’Ottocento aveva provveduto al “recupero” di Dante, soprattutto in chiave anticlericale, considerando, dopo Bonifacio VIII, coloro che nella Chiesa avevano perseguitato perfino le opere dantesche, come il cardinale Bertrand de Pouget, accanitosi, dopo la morte di Dante, sul trattato Monarchia. Quello stesso pensiero laico ottocentesco non considerava la fortuna del trattato, dopo il concilio di Basilea convocato da Martino V nel 1431, presente nelle argomentazioni del giurista Antonio de Rosellis, precettore di Enea Silvio Piccolomini, Papa Pio ii. Le affermazioni appena citate riconducono Dante a tutto titolo nell’alveo della Cristianità e della Sapienza cristiana.

I due secoli che separano la fine del papato di Alessandro VII (1667) dall’inizio del papato di Leone XIII (1878) segnano lo scontro, che gradatamente si trasformerà in incontro, tra la Chiesa e la modernità. Dopo lo tsunami teologico di Lutero, la Chiesa cattolica affronta quello culturale dell’Illuminismo, che non solo mette in discussione il dogma in quanto tale, ma la legittimità stessa dello Stato pontificio. Eppure, nello svolgersi delle vicende storico-politiche, che culminarono nell’arresto di Pio vi da parte di Napoleone Bonaparte, non possiamo non ricordare gesti culturalmente significativi come l’ampliamento della Biblioteca Vaticana da parte di Alessandro VIII (1689-1691) e di Clemente xi (1700-1721), l’inaugurazione della scalinata di Trinità dei Monti da parte di Benedetto XIII (1724-1730), la passione culturale di Benedetto XIV, che avviò nel 1750 il 18° giubileo, e le decisioni di Leone XII (1823-1829) che riconfermò l’ordine dei Gesuiti e tolse dall’Indice le opere di Galileo. Fondamentale nel contesto storico del secolo XIX il papato di Pio IX (1846-1878), predecessore di Leone XIII. Fondamentale perché l’anno dopo la sua elezione, nel 1847, il Papa apre alla libertà di stampa e conseguentemente, nel 1849, un giornale con la denominazione «Osservatore Romano» vede la luce a Roma sotto la direzione dell’abate Francesco Battelli. L’esasperato laicismo dello stato sabaudo (vedi legislazione antiecclesiastica di Cavour e Rattazzi del 1855), divenuto stato italiano nel 1861, provoca l’irrigidimento di Pio IX (che pure nel luglio 1846 aveva decretato un’amnistia per i delitti politici) e le conseguenti affermazioni contenute nell’enciclica Quanta cura – Sillabo. In questo clima nasce il nostro quotidiano (1 luglio 1861), con la sottotestata “Giornale politico-morale” poi sostituita da “Giornale quotidiano politico-religioso”, inserita tra Unicuique suum (dai Digesta Giustinianei di Ulpiano) e Non prevalebunt ( Matteo, 16, 18): è un clima politicamente e culturalmente infuocato ed è quello stesso che connota gli anni del cursus honorum di Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci.

Dopo una raffinatissima formazione letteraria presso i Gesuiti, nel 1832, a 22 anni, entra nell’Accademia dell’Arcadia col nome di Neandro Ecatéo. Singolari consonanze con la formazione di Pio ii e di Alessandro VII sono testimoniate dall’Elegia latina (1878) e dai Carmina (1883), affiancate dall’appassionata conoscenza dell’opera di Dante che lo accompagnerà fino agli ultimi istanti di vita, quando (8 luglio 1903), secondo la testimonianza di monsignor Marzolini, Leone XIII chiese di avere ancora tra le mani il libro della Divina Commedia. Cultura classica e dantismo diventano ancora una volta umanesimo cristiano, in cui il pensiero e la parola di Dante sono il sicuro sentiero da seguire perché quel sentiero conduce a Dio. L’avvio di codesto progetto è l’enciclica Aeterni patris (4 agosto 1879), in cui si invitano teologi e cristianità allo studio della Summa di Tommaso d’Aquino, intesa come forma organizzata di conoscenza razionale, finalizzata a Dio. Ma non si creda che la ricezione di Dante in chiave tomista conduca Leone XIII solo agli echi danteschi nelle sue poesie, tutt’altro, il suo dantismo è la chiave d’ingresso per intervenire nel dibattito politico e sociale della seconda metà dell’Ottocento, proprio come aveva fatto Dante in tutto l’arco della sua vita, prima e dopo l’esilio. Fra il 1881 e il 1883 Papa Leone apre ai lettori sia la Biblioteca Vaticana che l’Archivio Segreto, così come fonda l’Istituto Leoniano di Alta Letteratura (15 gennaio 1887), all’interno del quale affida a monsignor Giacomo Poletto la cattedra di Teologia dantesca, prima cattedra di studi danteschi nata in Italia. Fu proprio monsignor Poletto a ricostruire il rapporto tra il dantismo di Leone e la Rerum novarum nel volume La riforma sociale di Leone XIII e la dottrina di Dante Alighieri (Siena 1898). Già dal 1881 Papa Pecci aveva voluto e attuato una revisione dell’Indice dei Libri Proibiti (catalogo del 1564), decidendo di escludere e rendere fruibile il trattato politico Monarchia di Dante. L’operazione rimanda al mittente chi aveva impugnato il trattato dantesco come principale documento anticlericale di Dante e sarà ulteriormente avvalorata dalle encicliche Diuturnum illud (29 giugno 1881), in cui si condanna il mancato riconoscimento, da parte dello Stato laico liberale, dell’importanza della religione, e Immortale Dei (1 novembre 1885), in cui il Papa ritorna sui rapporti tra Stato italiano e Santa Sede, rapporti non facili perché fondati sul pregiudizio di un’inimicizia del Vaticano verso l’Italia. Infine il complesso impianto conoscitivo della Rerum novarum (15 maggio 1891) affonda le sue radici nel pensiero politico dantesco.

Per Leone XIII è necessaria nonché legittima la separazione e l’autonomia dei due poteri, quello spirituale e quello temporale, entrambi di origine divina. Lo Stato deve occuparsi e preoccuparsi del potere temporale, la Chiesa di quello spirituale, non in contrasto ma in armonia con lo Stato medesimo. Entrambi concorrono al Bene comune poiché sia le virtù spirituali che quelle civili si fondano su basi rispettivamente metafisiche e morali. La fine del potere temporale della Chiesa ha quindi dato inizio ad un’epoca nuova già profetizzata da Dante.

Col suo progetto politico culturale e pastorale Leone XIII dimostra che la dottrina politica dantesca è un formidabile strumento di rinnovamento della Chiesa nel suo incontro con la modernità: la storia del papato del XX secolo gli avrebbe dato ragione.

di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo