· Città del Vaticano ·

LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Intervista a Giuliano Amato

La resilienza non basta: bisogna cambiare

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06 giugno 2020

Giuliano Amato, giudice della Corte costituzionale italiana, più volte presidente del Consiglio dei ministri e parlamentare, è attualmente a capo della Consulta scientifica del Cortile dei gentili, struttura del Pontificio Consiglio della cultura presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi, che del Cortile è stato l’ideatore. Nell’intervista a «L’Osservatore Romano», Amato affronta il tema della ricostruzione post epidemia. In questa crisi, spiega, «non basta la resilienza», che pure molte persone hanno dimostrato di saper praticare: sarebbe come cercare di prevenire un conflitto atomico rifugiandosi in un bunker. Occorre invece essere trasformativi e perseguire l’ideale di un benessere diverso, “multidimensionale”.

Presidente, la Consulta scientifica è un organo del Cortile dei Gentili del Pontificio Consiglio della cultura che ha come finalità di fomentare il dialogo fra credenti e non credenti. Sotto la sua direzione, la Consulta ha lavorato assiduamente in questo periodo di confinamento dovuto alla pandemia da covid-19 producendo il documento «Pandemia e resilienza: persona, comunità e modello di sviluppo dopo il covid-19»: un’analisi multidisciplinare della  situazione sociale ed economica determinatasi a seguito della diffusione del coronavirus, con proposte concrete per la ripartenza (disponibile sul sito www.cortiledeigentili.com). Può spiegare perché la Consulta si è sentita in dovere di lavorare su questo progetto?

La vicenda del covid-19 ha scosso l’umanità, toccando i gangli più essenziali della nostra vita individuale e collettiva. Ha messo a nudo e purtroppo lacerato il valore incommensurabile, ed eguale in ciascun essere umano, della persona. Ha portato in piena luce l’importanza della solidarietà e della responsabilità che abbiamo verso gli altri. Ci ha aperto gli occhi sulle tragedie a cui siamo esposti se ci avvaliamo del creato non per migliorarlo e preservarlo, ma per ricavarne senza limiti tutto ciò che soddisfa i nostri fini egoistici ed immediati. Sono questioni talmente grandi che su di esse, prima che su ogni altra, il Cortile può e deve esercitare la sua missione, che è  esplorare la capacità delle persone di culture e di fedi diverse di trovare,  in quelle  culture e  in quelle fedi, piattaforme e principi comuni nell’interesse dell’umanità.

Due temi principali che sono emersi nelle premesse, sono quelli della “vulnerabilità” e quello della “diseguaglianza”? Potrebbe svilupparli, seppure sommariamente?

Perché ci hanno tanto colpito? Perché dopo decenni dedicati, almeno nelle società avanzate, alla protezione dei diritti e alla creazione di condizioni di maggiore eguaglianza, lo scossone del covid-19 ha  messo a nudo che fra noi ci sono  tanti più vulnerabili di altri, meno protetti di altri, più esposti  di altri alle conseguenze estreme del male. Quella che abbiamo vissuto — dice il nostro documento — è una crisi di scarsità, scarsità di risorse sanitarie, ma non solo. E non appena la crisi  ha preso corpo, i neri e gli ispanici di Harlem e del Bronx, come gli anziani ricoverati nelle case di riposo, hanno  cominciato a morire in misura spaventosamente più elevata di altri; non ad aver meno (in questo ci eravamo abituati a leggere la diseguaglianza nelle nostre società), ma a morire. È stato qui, in primo luogo, lo scossone. Le nostre — dicevo — erano, sono le società avanzate. Ma ci deve essere qualcosa di profondamente storto, a dir poco di gravemente incompiuto nell’attuazione di principi che pure erano stati proclamati, se,  alle prese con questa evenienza, non siamo stati in grado di evitare conseguenze  tanto spaventose; né  di contribuire ad evitarle là dove si sono manifestate  nei paesi meno avanzati di noi, chiusi come eravamo nei nostri guai.

Nel suo lavoro la Consulta parla di «opportunità che nascono dalle tragedie». Questo vale anche per la situazione attuale, specificamente?

Certo che vale davanti a una  lezione così amara  e trasparente.  La paura che fenomeni estremi, tanto di tipo sanitario quanto di tipo ambientale continuino a flagellarci non dovrebbe essere sufficiente per dire basta a uno sfruttamento della natura che ne ha alterato  gli equilibri mettendo in libertà virus ignoti, desertificando terre prima coltivate, rendendo l’acqua un bene sempre più scarso, scatenando cicloni che distruggono ciò che siamo venuti costruendo? Non dovrebbe essere sufficiente a renderci tutti più responsabili per il futuro?

Il termine “resilienza” è conosciuto e, a volte, abusato. Ma la Consulta parla di una “resilienza trasformativa”. Perché questo concetto è così significativo?

Sono stati proprio i cambiamenti che abbiamo davanti, in primis quelli climatici, a mettere in circolazione la resilienza come attitudine necessaria. Resilienza è capacità di resistere, è attrezzarsi per resistere. Ma diviene resistenza inutile se pretende di mantenere le cose così come sono e come hanno dimostrato, proprio nelle scorse settimane, di lasciarci esposti. A meno che non pensiamo che basterà avere qualche migliaio di posti letto in più nelle terapie intensive, anziché  evitare, il più possibile, che si rendano necessari. Sarebbe come combattere il rischio di un conflitto atomico limitandosi ad attrezzare un bunker per sé.  Ecco perché  deve essere, certo, resilienza, ma trasformativa, capace cioè di trasformare l’esistente, rendendolo meno permeabile ai fenomeni negativi e lavorando allo stesso tempo affinché  i fenomeni stessi siano meno frequenti e meno intensi.

Non avete esitato a fare delle proposte inerenti a vari ambiti — risorse sanitarie, “welfare society”, modelli di sviluppo, rapporti fra pubblico e privato, ricerca scientifica, settore educativo e assistenziale — potrebbe delinearne una a scelta?

Compaiono anche in altri documenti — e ne siamo contenti — la proposta di sistemi sanitari rafforzati sul territorio e meno affidati alle sole, grandi strutture e quella di un modello di sviluppo in cui sia il “benessere multidimensionale” e non il solo benessere degli azionisti la stella polare delle imprese. È più nostra la proposta che scaturisce dall’esperienza che tutti abbiamo fatto attraverso il coordinamento, per fermare la pandemia, di tante, piccole scelte individuali. Pensiamo a istituzioni che costruiscono un quadro di incentivi e norme intelligenti, capaci di stimolare e premiare scelte individuali e di gruppo  promotrici del bene comune; istituzioni levatrici delle energie positive della società civile.

Nelle vostre conclusioni, lodate gli sforzi di tanti soprattutto nel settore sanitario, che hanno messo a rischio la loro vita per aiutare le vittime del covid-19 e scrivete che il «modo in cui si prende cura degli ultimi fa la cifra morale di una civiltà». Lei pensa che questo parametro sia universale?

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». È l’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (e della donna).

di Carlo Maria Polvani